Circa 20 anni fa, nella città di Mashhad, considerata la capitale spirituale dell'Iran con un santuario che attira ogni anno un milione di pellegrini, un serial killer uccise 16 donne, tutte prostitute. E’ a questo episodio di cronaca che si rifà ‘Holy spider’ di Ali Abbasi, nato a Teheran ma cresciuto e formatosi in Scandinavia dove ha studiato architettura e cinematografia cominciando la carriera di regista. Protagonista è Rahimi, una giornalista licenziata e successivamente presa di mira per aver denunciato molestie sessuali da parte del suo capo. Ma soprattutto èsemplicemente una donna in Iran, con tutte le difficoltà che questo comporta.
Rahimi crede che ci sia una cospirazione che circonda l'indagine, nel senso che ai poliziotti non importa particolarmente che qualcuno stia uccidendo prostitute. Il motivo per cui non hanno trovato alcun indizio, per lei, è che non lo stanno cercando. Così collabora con un collega, reporter di cronaca nera, che con una certa regolarità riceve chiamate dall'assassino che gli confessa di aver intrapreso una personale jihad contro il vizio. Tanto che la serie di omicidi incontra un soddisfacente consenso da parte della popolazione, poiché l'intenzione dell'assassino di ripulire il mondo da quello che considera feccia colpisce un nervo scoperto nell'ordine religioso di base.
‘Holy spider’ è un thriller anomalo perché noi come spettatori sappiamo già chi è l'assassino. Non c'è mistero da risolvere in quanto vediamo fin dall'inizio l'autore e i suoi metodi. Gli unici misteri del film sono perché fa quello che fa e se verrà mai catturato. Perché in “Holy Spider”, una storia che è lodevolmente priva del tono sensazionalistico di alcuni film di serial killer, Abbasi costruisce la sua narrazione su tre filoni principali: uno che segue Rahimi mentre cerca di indagare sugli omicidi, cosa che ovviamentela mette in pericolo; un altro che osserva alcune delle vittime prima che vengano uccise (la maggior parte povere e tossicodipendenti) mentre la terza si concentra sull’assassino Saeed, veterano della guerra Iran-Iraq, non solo nella sua crociata omicida ma anche nella banale quotidianità della sua vita familiare, padre e marito assolutamente normale, quasi esemplare.
Da una prospettiva sociopolitica, il filone più affascinante è quello della giornalista, un personaggio sorprendente non solo per il suo modo intrepido di portare avanti la propria personale indagine ma anche per la maniera disinvolta di trattare con gli uomini che incontra tanto che in tutte queste interazioni otteniamo un quadro molto preciso degli ostacoli e delle sfide che le donne iraniane devono affrontare. Allo stesso modo, il film non ritrae Saeed come un mostro ma come un uomo perfettamente normale, a parte i crimini che commette.
Ciò che è più terrificante è come ‘Holy spider’ riesca a ritrarre la sensazione di assoluta facilità con cui l'assassino può muoversi, sapendo che grandi e importanti parti della società iraniana lo supportano nella sua missione volta a liberare le strade dal peccato, e trovarsi faccia a faccia con la raggelante consapevolezza che è impossibile non sentirsi un messia quando lo spietato sistema patriarcale è costruito a proprio vantaggio. Cosìla forza del film deriva quasi interamente dalla sua indignazione morale, quando Abbasi ci mette faccia a faccia con gli inquietanti attacchi delle norme sociali che sostengono la violenza contro le donne: una misoginia ammantata del santo nome della religione.