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Cultura e spettacolo

Grandissimo successo per 'Killers of the flower moon' interpretato da Robert De Niro e Leonardo Di Caprio
3 minuti e 49 secondi di lettura
di Dario Vassallo

 

CANNES - Negli anni '20 del secolo scorso tra le persone più ricche del mondo c'era un gruppo di nativi americani, i membri della Osage Indian Nation in Oklahoma. Dopo che nella loro terra fu scoperto il petrolio, gli Osage si misero a viaggiare in automobili con autista, a costruire palazzi e a mandare i propri figli a studiare in Europa. Poi, uno ad uno, iniziarono a essere uccisi in circostanze misteriose. Non solo, in quest'ultimo residuo del selvaggio West veniva assassinato anche chiunque avesse osato indagare sugli omicidi fino a quando il giovane Edgar Hoover del nascente FBI non mandò alcuni funzionari sotto copertura, tra loro anche uno dei pochi agenti nativo-americani a disposizione, che si infiltrarono facendo alla fine luce su uno dei crimini più mostruosi, e meno conosciuti all’estero, della storia degli Stati Uniti. Scoprirono infatti che i responsabili erano cospiratori bianchi che si erano sposati con membri di questa comunità ereditando legittimamente in questo modo alla loro morte i diritti petroliferi.

Dal crimine e dai gangster di ‘Quei bravi ragazzi” ai vampiri del mercato azionario de ‘Il lupo di Wall Street” Martin Scorsese ha sempre mostrato un fascino particolare per la corruzione, la violenza e gli affari clandestini, occupandosi spesso dei peccati del suo paese guidati dall’avidità. Dunque non sorprende che abbia deciso con ‘Killers of the flower moon’ di adattare un libro di David Grann incentrato su quei crimini illustrando senza compromessi un passato dimenticato, ennesimo capitolo di uno dei più grandi peccati originali dell'America: il genocidio spietato dei bianchi contro le tribù native. Con il co-sceneggiatore Eric Roth crea un'epopea di orrore strisciante ed esistenziale sulla nascita di una nazione, a suo modo un thriller che affronta in definitiva i temi classici del western: la brutale presa di terra, risorse e potere.

Lo fa raccontando un matrimonio. Un veterano della prima guerra mondiale, Ernest Burkhart (interpretato da Leonardo Di Caprio) si trasferisce a Fairfax, in Oklahoma, dove è ospitato dallo zio, il potente e rispettato allevatore William “King” Hale (De Niro). Ernest non se ne rende conto ma il piano è già in atto. Perché funzioni, King ha bisogno che il nipote, obbediente e un po’ incapace, sposi Mollie Kyle, una donna Osage dalla ricchezza enorme che condivide con le tre sorelle, troppo intelligente per non riconoscere uno che mira direttamente ai soldi ma anche troppo fiduciosa nell’amore per immaginare quanto possano essere sinistre le intenzioni del suo corteggiatore. Dopo il matrimonio i suoi parenti iniziano a morire per cause sospette: una sorella soccombe a causa di una strana "malattia devastante", un'altra viene scoperta con una ferita da proiettile alla nuca e la terza uccisa in un'esplosione della propria casa così potente da far saltare tutte le finestre delle abitazioni del quartiere. Lei stessa rischierà di essere uccisa dal marito. Alla fine arrivano i federali che cominciano ad indagare, Ernest è costretto a confrontarsi con i primi rigurgiti di coscienza ma il suo ravvedimento sarà tardivo.

In quasi 60 anni di carriera Scorsese ha realizzato molti dei grandi film americani. Lo è anche ‘Killers Of The Flower Moon’, nel senso più esteso del termine: il tentativo di catturare l'anima di una nazione e l’ampiezza del peccato che si porta dietro da sempre. Sollevando la macchina da presa per mostrarci le vaste pianure del passato, realizza un western epico offrendo qualcosa di biblico, umano e profondamente disumano allo stesso tempo. Perché la sfera in cui operano zio e nipote, un miscuglio di lavoro e famiglia, denaro e violenza, gli offre una nuova affascinante frontiera visiva, drammatica e politica, per raccontare un'epidemia di violenza nascosta che inquina la falda freatica dell'umanità ricordandoci allo stesso tempo come l'America sia stata costruita sulla violenza razziale e sull'autoassoluzione delle persone che la commettono.

Ma oltre ad essere una storia travolgente dello sfruttamento omicida dei nativi americani, è anche uno studio più intimo della psiche umana, della capacità di tenere dentro di sé repellenti contraddizioni morali e della rabbia del maschio bianco per non poter godere della propria presunta superiorità. Una vicenda intrinsecamente oscura, raccontata con finezza classica, su una trama sinistra che non richiede di indovinare nulla per farsi capire. Traboccante di riverenza per una cultura che è sopravvissuta ad un trauma orribile, Scorsese trasforma ‘Killers of the Flower Moon’ nel tipo di storia che solo lui può raccontare meglio di chiunque altro: sull'avidità, la nostra attitudine disinvolta verso il male, la corruzione e l'anima nera di un paese che è nato dalla convinzione che potesse appartenere a chiunque fosse abbastanza insensibile da prenderlo per sé senza sottostare ad alcun compromesso.

 

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