GENOVA - Il giornalista del Post Stefano Nazzi ha fatto tappa a Genova per presentare il suo nuovo libro "Il volto del male", in cui racconta dieci storie degli autori di crimini terribili fuggendo dagli schemi classici della cronaca nera, di cui è diventato un punto di riferimento a livello nazionale soprattutto grazie al podcast "Indagini" di cui è autore e voce. Nei racconti di Nazzi si parla soprattutto dei fatti, ripuliti dalle sovrastrutture, dai soprannomi ("zio Michele", "i fidanzatini", "l'assassino dagli occhi di ghiaccio") e dai falsi miti come il "raptus", che non esiste in nessun manuale di psicologia ma viene spesso menzionato da chi racconta i delitti. Indagini non tratta solo di cronaca nera ma è soprattutto un racconto di cronaca giudiziaria, dove si viene a conoscere l'iter processuale dei singoli casi ma anche a scoprire "come le indagini hanno influenzato i media e come i media hanno influenzato le indagini", come dice lo stesso Nazzi nell'introduzione di ogni puntata: dal delitto di Cogne, il primo processo in cui la televisione è entrata a far parte della strategia difensiva, al caso di Enzo Tortora, accusato di rapporti con la camorra in seguito ad una serie di testimonianze che si sono rivelate false. Lo abbiamo incontrato alla Feltrinelli, dove ci ha raccontato il suo approccio giornalistico al racconto della cronaca.
Il tuo libro si intitola "Il volto del male", quali sono i tratti di questo volto?
Non è un volto solo. Mi sono accorto, e ho avuto la conferma scrivendo questo libro, che il male ha volti diversi perché storie diverse, da estrazioni sociali, culturali ed economiche diverse e da posti diversi. Non c'è una storia, un volto o un protagonista che si assomigli con l'altro, però è sempre il male, con mille aspetti diversi.
Parliamo di "Indagini". Fa parte del genere true crime ma l'approccio tipico del Post lo rende diverso dagli altri, ti aspettavi che potesse avere questo successo?
No, però sapevo che come me c'erano molte persone che si interessavano alla cronaca e avevano voglia di ascoltarla in maniera diversa, che privilegiasse più i fatti, l'interpretazione psicologica e l'iter della giustizia piuttosto che l'aspetto sensazionalistico ed emotivo, non vuol dire che non ci siano emozioni ma si lasciano parlare i fatti e sono già i fatti che danno emozioni.
La tua è una fuga dagli schemi tipici ma fuorvianti del giornalismo, ripeti spesso che sui manuali di psicologia il 'raptus' non esiste.
Sì ma ce ne sono tante di frasi fatte in cui noi incorriamo raccontando le storie e che spesso non spieghiamo. Non spieghiamo perché una persona viene dichiarata incapace di intendere e di volere mentre una persona che fa un omicidio simile non viene riconosciuta come tale. Tento anche ogni volta di spiegare qual è il percorso che porta a determinate decisioni cercando di evitare il più possibile le frasi fatte e i preconcetti.
C'è qualche storia che ti ha appassionato di più e qualcuna che è stata difficile da raccontare perché era complicato unire i puntini o magari per un fatto emotivo?
Difficile unire i puntini no, anche nelle storie più complesse. Alcune sono infinite come quella di Emanuela Orlandi o quella del mostro di Firenze che secondo me andrebbero a questo punto depurate di tutta una narrazione e dalle sovrastrutture che non c'entrano niente, che hanno portato fuori strada e sono false piste. Ci sono invece storie che sono più difficili da raccontare dal punto di vista emotivo. Una delle più terribili è quella di Desirée Piovanelli, uccisa nel bresciano. Terribile perché fu attirata da suoi coetanei, ragazzini di 16-17 anni, però diretti da un adulto che gli ordinò di fare quelle cose. Non riesco ancora ad avere la giusta freddezza per raccontare questa storia e per approcciarmi a quest'adulto che ha fatto questa cosa, che ha controllato quei ragazzini e li ha spinti a fare male a una ragazza, quindi rendendosi colpevole non solo nei suoi confronti ma anche di questi ragazzi di 16-17 anni.
Una delle puntate che mi ha colpito di più è quella dedicata ad Enzo Tortora perché non si parla di un omicidio ma di false testimonianze che incastrano un innocente. Com'è stato raccontare questo tipo di caso ad un pubblico che da te si aspetta il crime?
Avevo il tuo stesso dubbio ma ha interessato molto. È una storia talmente assurda ed importante per la storia del nostro Paese, perché veramente ha segnato un'epoca e ancora adesso non ci si può credere, che secondo me è valsa la pena di raccontarla e molti che non la conoscevano hanno imparato che cosa successe. È una di quelle storie che rileggendo gli atti ti chiedi come sia potuto accadere, eppure è accaduto.
Il processo principale a Genova è quello del Ponte Morandi, per la tua esperienza di cronaca giudiziaria che idea ti sei fatto? Pensi di raccontarlo? La cosa che mi colpisce è che dopo ogni testimonianza emerge sempre più incuria.
È una storia che non posso raccontare perché le racconto a freddo, mettendo i fatti uno dietro l'altro. Questo sicuramente è un processo ad alcune persone, perché la responsabilità è sempre personale, ma a mio modo di vedere è anche un processo ad una certa Italia, ad un certo modo dell'Italia che non si riesce proprio a superare. Come dici tu c'è l'incuria ma anche la 'furbizia', la vigliaccheria di chi dice "sapevo ma non ho detto niente per non perdere il posto di lavoro", il piccolo interesse o anche l'arroganza di dire "non succede" quando tu non può mai sapere cos'è la vita domani o dopodomani. È un giusto processo a responsabilità personali ma è anche un processo a un modo di fare le cose e di vedere le cose in Italia che noi non riusciamo a superare.