Benvenuti ad Asteroid City, 87 abitanti. L'ambientazione dell'ultimo film di Wes Anderson è una città deserta al confine tra California e Nevada così chiamata perché 3.000 anni fa nella zona si schiantò un meteorite, sede ora di un osservatorio governativo. Qui si svolge una convention annuale in onore degli inventori adolescenti dei migliori progetti scientifici delle scuole superiori e proprio mentre i bambini e i loro genitori si riuniscono per assistere alla cerimonia accade un evento sconcertante cui segue il caos mentre vengono messe in atto rigorose quarantene. Così tante persone diversissime tra loro sono costrette forzatamente a convivere per un certo periodo di tempo: un fotografo di guerra padre di quattro figli ai quali deve ancora dare la notizia che la madre è morta, il suocero con cui non è mai stato in buoni rapporti, un'attrice che ama interpretare personaggi tragici, il meccanico della città, un cowboy locale, il proprietario di un motel, un generale e tanti altri ancora di cui si incrociano drammi e dolori personali.
È difficile immaginare un altro regista contemporaneo con uno stile immediatamente riconoscibile come quello di Anderson che fa propria l'idea di Oscar Wilde che l'arte non ha bisogno di esprimere nient'altro che se stessa. I suoi film possono essere stravaganti voli di fantasia ma esprimono anche una genuina curiosità per la bizzarra natura delle relazioni umane e 'Asteroid city' non fa eccezione. In più, non riesce quasi mai a resistere alla tentazione di stratificare e aggiungere meta-artifici. Qui c'è infatti anche una storia parallela dal momento che all'inizio, in sequenze in bianco e nero pensate per replicare l'aspetto di una vecchia trasmissione televisiva, ci viene presentato uno scrittore autore della commedia che stiamo guardando, cioè proprio 'Asteroid City'. Si tornerà a questo livello in modo intermittente, mostrandoci anche il regista che cerca di mettere insieme la produzione e l'attrice principale.
Nel suo modo insolito, 'Asteroid City' è un mosaico della paranoia della Guerra Fredda e dei valori della famiglia americana in tutta la loro gloria spesso ipocrita. Eccentrico, elegante, tipico della classica cultura pop americana con una malinconia di fondo – vedi le scene cui l'esperienza-Covid non è stata certamente estranea con i personaggi in quarantena che comunicano tra loro stando alla finestra - che aggiunge un minimo di profondità a quello che potrebbe essere qualcosa di più banale. Il limite è che è stato girato da un regista certamente sensibile e attento al dolore e alla delusione ma i cui messaggi sul bisogno di gentilezza e l'importanza di una vera connessione umana talvolta annegano all'interno della sua estetica. Senza contare che a parte due o tre casi (Jason Schwartzmann, Ton Hanks, Scarlett Johannson), nessun altro tra la valanga di attori che interpretano i tanti personaggi di contorno (Tilda Swinton, Andrew Norton, Adrien Brody, Steve Carell, Matt Dillon, Margot Robbie) ha la possibilità di approfondire il suo ruolo rimanendo in superficie.
'Asteroid City' è una storia con alcuni elementi divertenti ma incoerente e soprattutto con molti punti in sospeso. Il problema maggiore è che quanto vediamo è già stato fatto prima, molte volte e meglio, dallo stesso Anderson: l'imbarazzo e la dolcezza del primo amore l'abbiamo già visto in 'Moonrise kingdom' così come il ritratto del fotografo e dei suoi figli sembra preso direttamente dai 'Tenenbaum'. Un film insomma che ci mostra pallide diluizioni di idee già elaborate e rielaborate ma senza nulla che si avvicini alle opere migliori di questo regista. È come guardare gli ultimi due decenni di Woody Allen sapendo che tanto tempo fa ha girato un capolavoro come 'Manhattan'.