Il primo merito di 'Green border' della regista polacca Agnieszka Holland, vincitore del Premio Speciale della Giuria a Venezia, è di aver affrontato l'attualissimo tema della crisi dei rifugiati in Europa da una prospettiva inusuale e sconosciuta ai più, quella del 'confine verde' cui fa riferimento il titolo, una zona boscosa e paludosa tra la Bielorussia, alleata di Putin, e la Polonia, membro dell'Unione europea. Perché con una mossa del dittatore bielorusso Lukashenko calcolata per provocare l’Europa, i rifugiati vengono attirati al confine del suo paese da una propaganda che promette un passaggio facile e sicuro mentre i soldati polacchi condizionati a considerarli armi nelle mani di Putin li respingono indietro come spazzatura indesiderata in uno spietato gioco di rimpallo di responsabilità.
E' quanto accade ad una famiglia siriana in fuga dall'Isis che arriva in aereo in Bielorussia, tappa di passaggio per raggiungere alcuni parenti in Svezia, e a una donna afghana che si unisce a loro nel viaggio verso il confine polacco. Ma lungi dal percorso facile che era stato loro promesso, come centinaia di altri disperati si ritrovano pedine di uno stallo geopolitico, spinti avanti e indietro e derubati subendo un trattamento sempre più disumano. Il film è diviso in diversi capitoli e prospettive: guardie di frontiera spietate e indifferenti, attivisti oberati di lavoro che rischiano la vita e operatori umanitari sottofinanziati. E tra i soldati, una sentinella con la moglie incinta divisa tra il proprio dovere e il rimorso per quello che vede.
Più di trent'anni dopo 'Europa Europa', dove durante la Seconda Guerra Mondiale un ragazzo ebreo tedesco fuggiva dall'Olocausto mascherandosi da nazista e unendosi alla Gioventù hitleriana, Agnieszka Holland torna al concetto del nostro continente come luogo crudele e sadico che ha smarrito la strada della solidarietà. Regredendo dal suo idealismo post-bellico e recedendo alla spietatezza e alla mancanza di diritti umani che credeva ingenuamente di essersi lasciati alle spalle, l'Europa della regista polacca è tornata a un'epoca di spietata disumanità. Girato nel suo stile schietto e tagliente – bianco e nero, pochissimo uso di musica o abbellimenti cinematografici - gran parte di questa brutale vicenda è inquietante nel suo realismo ponendo lo spettatore nel mezzo dell'azione per farlo sentire un testimone in tempo reale.
Alla fine, si potrebbe sostenere che 'Green Border' riguarda in qualche modo il concetto di eredità: ci costringe a guardare, parla alla nostra coscienza e ci sfida a riflettere sulla nostra umanità e su come vogliamo che la Storia ci ricordi. E' una condanna piena di rabbia che fa riflettere sulla moralità decadente e marcia del continente in cui viviamo. Per fortuna, si conclude con un epilogo pieno di speranza sottolineando come la Polonia abbia accolto 300.000 rifugiati ucraini nei suoi confini dopo l’invasione russa. Dimostrando i modi diversi in cui i rifugiati possono essere trattati a seconda di come le loro storie di sfollamento spesso simili vengono interpretate dal punto di vista politico, il film sposa l'istanza che la crudeltà sistemica non sia la regola ma l’aberrazione e che l'istinto umano sia fondamentalmente portato verso la compassione. A volte può rimanere dormiente ma aspetta solo di essere risvegliato.