Tutto il cinema che ha affrontato il tema dell'Olocausto è sostanzialmente ruotato intorno ad una domanda: qual è la maniera più corretta per descrivere un'atrocità? Quella di Alain Resnais che in 'Notte e nebbia' lascia che a parlare siano soltanto le immagini sottraendosi a qualsiasi giudizio che non sia semplicemente la tragica contemplazione di un orrore sovrumano? O quello di Spieberg che con 'Schindler's list' ci mostra invece la tragedia del popolo ebreo in maniera dichiaratamente epica? Il regista inglese Jonathan Glazer ne 'La zona di interesse' (Gran Premio della Giuria a Cannes e cinque nomitation agli Oscar) sceglie una via del tutto personale e disturbante che si basa sul fermo rifiuto di mostrare qualsiasi accenno di violenza esplicita. Così nessun film sull'Olocausto è mai stato talmente impegnato nel mostrarci la banalità del male perché nessun film sull'Olocausto è mai stato così determinato a ignorare del tutto il male dal momento che c'è letteralmente un muro di cemento a separare i personaggi dagli orrori della porta accanto.
La storia è quella di una famiglia tedesca apparentemente normale che vive in una bucolica casetta con piscina una quotidianità fatta di gite in barca, picnic in riva al lago, il lavoro d’ufficio del padre, i tè della moglie con le amiche, le domeniche passate a pescare al fiume. Peccato però che l’uomo in questione sia Rudolf Höss, comandante di Auschwitz, e la deliziosa villetta con giardino in cui vive con la famiglia in una surreale serenità è situata proprio al confine con il campo di concentramento, a due passi dall’orrore, così vicino e così lontano, sottolineato da una torre di guardia, dalle urla soffocate dei prigionieri in lontananza, dal rumore degli spari e dal ribollire quasi ininterrotto dei forni crematori. Tutte cose che gli abitanti della casa e i loro ospiti hanno imparato ad ignorare.
In questo modo Glazer ci mette di fronte a un terrificante disegno del male nella sua forma più pura, quella che si fonda su un'assoluta indifferenza verso le conseguenze delle nostre azioni, che è la materia prima su cui sono costruiti i veri mostri. E' la visione di un regista che ci apre gli occhi sulla realtà di orrori che pensavamo di comprendere con una prospettiva nuova e sorprendente. E il suo punto di vista - che la follia depravata a volte passa inosservata a causa della sua inaspettata mediocrità - ha un impatto agghiacciante che nella terrificante politica di potere del nostro mondo di oggi appare più rilevante che mai.
La presenza inespressa del male che viene resa chiara allo spettatore ma quasi ignorata dalla maggior parte degli occupanti della famiglia Höss rende in qualche modo le atrocità della Seconda Guerra Mondiale molto più viscerali e di grande impatto. E alla fine, essere immersi così profondamente nella vita quotidiana di un assassino di massa e della sua famiglia significa ricordare che non tutti gli attori della 'Soluzione finale' erano pazzi deliranti come il loro Führer. Qui c'è una normalità, o almeno la sua impressione esteriore, che si rivela molto più sconcertante e impressionante di quella che potrebbe avere una malvagità evidente e articolata. Un film che rifiuta radicalmente di chiudere la porta alla Storia.