Trent'anni di carriera cinematografica alle spalle (iniziata nel 1994 con 'Ladri di cinema' di Pietro Natoli) e più di 40 film, per non parlare di teatro e televisione. Neri Marcorè, artista ironico e versatile che non ha bisogno di presentazioni, ha deciso adesso di passare dietro la macchina da presa con 'Zamora', il cui titolo evoca il portiere spagnolo degli anni Trenta diventato un vero e proprio mito calcistico, ispirato ad un romanzo del giornalista e scrittore ligure Roberto Perrone.
"Fino a qualche decennio fa - racconta a Primocanale - era considerato il più grande portiere di sempre, quando uno parava bene si diceva 'sembri Zamora'. Però nel romanzo e nel film è il nomignolo che viene affibbiato al protagonista, il ragionier Walter Vismara, uno che nella vita non vorrebbe avere sorprese. È un calcolatore come il suo mestiere lo spinge ad essere e sostanzialmente un uomo che non è ancora uscito dal proprio guscio trincerandosi dietro abitudini e situazioni di conforto che non gli permettono sostanzialmente di affrontare al meglio la vita".
"Il cambiamento arriva nel momento in cui l'azienda in cui lavora chiude e viene trasferito nella Milano degli anni 60 che era l'emblema del boom, la locomotiva d'Italia, come si diceva. Lì si troverà costretto ad adeguarsi a situazioni che non aveva cercato né voluto, una fra tante quella di giocare tutte le settimane a calcio da portiere perché il suo capo, il cavalier Tosetto, costringe tutti i dipendenti a praticarlo per tenere alto lo spirito aziendale".
"Potrebbe anche andarsene perché il calcio non lo sopporta e vive la situazione come un sopruso ma si innamora di una segretaria, corrisposto. Poi succederà qualcosa per cui chiederà l'aiuto di un ex portiere caduto in disgrazia che interpreto io, un pò alcolizzato, che gioca d'azzardo, per diventare un portiere migliore. Ma pur puntando a un obiettivo che ritiene sbagliato avrà l'opportunità di crescere perché capita tante volte a tutti noi di cercare una cosa e magari sorprendentemente trovarne un'altra. Quindi in definitiva è una storia di formazione che parla anche di sentimenti".
Se hai deciso dopo tanti anni di fare il regista è evidentemente perché hai trovato un soggetto che in qualche modo ti ispirava... "Sì, a me colpiva il fatto che questo protagonista soffre di inadeguatezza che non è una malattia ma comunque una condizione nella quale tutti noi nella vita ci siamo trovati per un periodo breve o lungo. Mi piaceva anche parlare di come superare questa inadeguatezza, che sicuramente è uno schermo tra noi e la vita".
"Nel senso che ognuno può trovare la sua strada nella maniera più differente possibile ma l'importante è trovarla, perché anche cadere e farsi male, anche prendere schiaffi, metaforicamente parlando, ci aiuta a tirare fuori quello che siamo, a trovare noi stessi. Credo sia la prima missione nella vita di ognuno".
Nel protagonista c'è qualcosa di Neri Marcorè? "Direi molto anche se ha solo trent'anni. E' quello che ero io in età adolescenziale quando sicuramente la timidezza, la paura di risultare inadeguato o sbagliato col rischio di essere preso in giro dagli amici o da chi avevo intorno faceva sì che fossi molto più chiuso di come sono poi diventato grazie anche alla mia professione. Ho avuto la fortuna di trovare in Alberto Paradossi l'interprete perfetto in grado di restituire tutto ciò che volevo dal personaggio".
E' un film dove si parla tanto di calcio ma non è un film sul calcio. "Grazie di averlo specificato. Qui il calcio è un liquido di contrasto attraverso il quale vengono fuori i caratteri dei personaggi. È semplicemente un pretesto".
A me ha ricordato i film di Pupi Avati. C'è stato qualche regista tra quelli con cui hai lavorato che ti è stato di ispirazione? "Con lui ho girato tre volte, sicuramente mi ha influenzato, ma mi hanno ispirato in tanti, da questo punto di vista si impara veramente da tutti, anche da quelli sbagliati che ti insegnano cosa non devi fare sul set. Però pur essendo soltanto al primo film ho cercato di esprimere il mio gusto e la mia sensibilità, trovare la mia voce e il mio linguaggio per raccontare al meglio questa storia di Roberto Perrone".
Il fatto che sia ambientato negli anni '60 ti ha permesso di trattare con più ironia temi che oggi, in questa fase dove impera il politicamente corretto, sono un pò tabù, vedi i rapporti tra i milanesi e i meridionali o anche semplicemente quelli tra uomo e donna. "Sicuramente sì, d'altronde era la realtà dei fatti che i meridionali al Nord venissero chiamati terroni e facessero fatica a trovare alloggio. Ma penso che anche adesso ci siano tante cose che si continuano a pensare anche se non vengono espresse e qui entriamo nel campo dell'ipocrisia. Però tornando alla nostra storia in effetti c'è uno sguardo affettuoso rivolto alle tante persone che salivano a Milano per cercare lavoro e venivano prese in giro e magari insultate. Una situazione non facile affrontata ma con ironia perché si tratta di una commedia".
Si dice che per essere portieri sia necessaria una buona dose di follia. Per i registi vale la stessa cosa? "Follia no, però ci vuole sicuramente intraprendenza, non dico incoscienza perché alla fine non è un viaggio che si fa da soli però è un mestiere al pari di quello del portiere in cui ci si prende la responsabilità di mettersi in un ruolo in cui si è esposti".
"Quella del portiere, così solitario in uno sport di squadra, è una metafora emblematica, se fai uno sbaglio sei crocifisso, se fai una paratona diventi un eroe. Per il regista è un pò diverso anche se hai sicuramente la responsabilità di tenere le fila di tutto e controllare che ogni cosa vada al meglio".
L'esperienza è stata come te l'aspettavi? "Sapevo che sarebbe stata impegnativa ma non ho mai pensavo che sarei andato in analisi e non ci avrei dormito su. Sono riuscito comunque a lavorare in armonia e sono stati mesi pieni di un lavoro appassionante tanto che sono arrivato alla fine senza neanche rendermene conto".
Tu hai un rapporto molto stretto con Genova, grazie soprattutto al teatro Archivolto in cui hai lavorato molte volte. Cosa pensi della nostra città? "E' una città che mi ha accolto da almeno vent'anni, l'ammiravo da lontano perché ha dato i natali a tanti artisti che ho amato e continuo ad amare da De André a Fossati e da Paoli a Lauzi. In questi anni ho sviluppato tante amicizie e ogni volta che torno non mi fermo un attimo, vengo sempre molto volentieri".
Cosa vorresti che il pubblico si portasse via dal film una volta uscito dalla sala? "Guarda, ti rispondo dicendo che il pubblico esce col sorriso e un cuore leggero. Me lo dicono in tanti, pieni di gratitudine perché vengono trasportati in una storia in cui si può rilassare, ridere e commuoversi. Per me è una grandissima soddisfazione, avendoci lavorato con tanto impegno è l'appagamento migliore".