Jacques Audiard è un regista che sorprende sempre con i continui cambiamenti di registro dei suoi film che possono passare con felice disinvoltura dal genere carcerario (Il profeta) al western (I fratelli Sister) attraverso il melodramma (Un sapore di ruggine e ossa), il dramma urbano (Deephan, Palma d’oro nel 2015) o perfino la commedia (‘Parigi, 13Arr’). Quest’anno torna a Cannes per la settima volta, la sesta in concorso, con ‘Emilia Perez’ spiazzandoci di nuovo con un imprevedibile mix di melodramma queer, thriller legato al narcotraffico, cinema politico e musical. Un’opera pop su una metamorfosi che sembra improbabile ma tale non è e sulla redenzione personale che si risveglia in un freddo criminale.
Si parte con Rita, un’ostinata avvocatessa di successo che viene rapita, incappucciata e portata davanti ad uno degli uomini più temuti del Messico, il boss Manitas che ha notato il suo talento e le offre un lavoro per il quale la ricoprirà d’oro: vuole diventare donna e a tale scopo Rita dovrà scegliere la clinica migliore e il chirurgo più discreto, escogitare la sua finta morte, trovare nuovi passaporti e garantire una lussuosa residenza svizzera per l'ignara vedova e i suoi due figli piccoli mentre lui farà in modo di scomparire per riemergere in seguito come Emilia Perez. Tutto questo va a buon fine, poi un incontro casuale con la madre di un desaparecido porterà Emilia a creare un'organizzazione no-profit destinata ad aiutare i familiari a cercare le vittime della violenza dei vari cartelli, su molte delle quali ha una responsabilità diretta. E qui le cose si complicheranno volgendo verso il disastro.
Adattato liberamente da un romanzo, il film abbraccia abilmente molti stili. La base è un dramma di criminalità e riscatto, ma poi c'è una corrente di umorismo almodóvariano insieme a momenti di noir, realismo sociale, accenni di telenovela e un'escalation culminante in una suspense che si conclude in tragedia. ‘Emilia Perez’ emerge come un ritratto senza filtri di qualcuno che sfida contemporaneamente stereotipi diversi, interpretato da Zoe Saldana, Selena Gomez ma soprattutto Karla Sofía Gascón (nel doppio ruolo Manitas/Emilia) che trasferisce nel personaggio la sua esperienza personale di transizione di genere avvenuta nel 2018: attore prima di diventare attrice e padre prima di diventare madre.
È un melodramma moderno che danza attraverso un labirinto morale, a volte in modo scomodo. Tuttavia, provenendo da un regista che si è sempre preoccupato delle radici e delle dinamiche della violenza maschile, pone anche un’interessante questione centrale: se una persona si sottopone a terapia ormonale e chirurgia di affermazione del genere per essere ciò che sa di essere, cambia altre cose? Elimina il controllo coercitivo e l’eventuale brutalità?
Per Audiard la risposta è sì e uno dei punti di forza del film è la delicatezza con cui tratta la trasformazione di Emilia. É la storia edificante di una redenzione o quella di una tragedia terribilmente inevitabile? Un po' entrambe le cose, diciamo una celebrazione del potere del cambiamento positivo e un apologo sulle conseguenze di vasta portata della violenza. Un bizzarro musical sicuramente non esente da difetti ma che affascina anche per le sue imperfezioni, le scelte coraggiose che non sempre vanno a buon fine. Cammina su una linea sottile tra l'audace e il ridicolo ma ha il cuore al posto giusto come la stessa Emilia, sfacciatamente sincera nella ricerca di una se stessa che ha deciso di passare dalla ferocia alla tenerezza.