Di recente sono usciti parecchi film riguardanti i diritti civili in America, come ‘Judas and the Black Messiah’ sull'influenza maligna dell'FBI di Edgar Hoover nei confronti degli attivisti neri e delle loro proteste viste come una minaccia alla supremazia bianca o ‘Ma Rainey’s black bottom’ che affrontava il razzismo nell'industria musicale del 20° secolo. ‘Gli Stati Uniti contro Billie Holiday’ rientra in questo gruppo focalizzando l’attenzione su una straordinaria cantante, regina del jazz e dello swing, colei che - scrisse una vota la prestigiosa rivista musicale ‘Rolling stone’ – “poteva prenderti con la sua voce e portarti via, qualunque strada stesse percorrendo” e su una sua canzone che ha fatto epoca, ‘Strange fruit’, registrata per la prima volta nel 1939, diventata emblematica nel denunciare i linciaggi subiti dalla popolazione nera del sud del paese nella prima metà del XX secolo.
Holiday è stata tra le interpreti più popolari e carismatiche dei suoi tempi, capace di attirare l'attenzione di un pubblico composito, sia di bianchi che di neri, ma anche donna tormentata che ha affrontato lo stress derivato dalla fama con la tossicodipendenza e l’eroina, diventata per lei un rifugio soprattutto dopo che il governo federale le mise gli occhi addosso con l'idea di esercitare una qualche forma di potere su una persona che non riusciva a tenere sotto controllo.
Il film di Lee Daniels (il regista di ‘Precious’ e ‘The butler’) inizia nel 1957 in un jazz club di New York per poi tornare indietro di 10 anni quando Billie è già una grande star, se pure dedita a marijuana, eroina e alcolici. Il titolo si riferisce al famigerato caso giudiziario di cui fu protagonista, processata per possesso di droga a seguito di un raid supervisionato dal direttore del Federal Bureau of Narcotics Harry J. Anslinger, in realtà solo una scusa legale da parte dell’uomo per alimentare la crociata personale che conduceva contro l’artista per la sua razza e la sua bisessualità. Ne seguiremo la vita, la carriera e il rapporto con un agente infiltrato per incastrarla che alla sine si innamorò di lei fino alla prematura fine in ospedale, avvenuta nel 1959 a soli 44 anni, piantonata dai federali persino sul letto di morte.
Alcuni ‘biopic’ fondono una storia avvincente con approfondimenti del personaggio che ci consentono di comprenderne meglio la vita e la lotta, altri presentano un attore protagonista che dà il massimo, in questo caso la sorprendente Ambra Day, e fanno girare tutto intorno a lei. ‘Gli Stati Uniti contro Billie Holiday’ rientra in questa seconda categoria. Nonostante la sceneggiatura sia stata scritta da un premio Pultzer, Suzan-Lori Parks, i due binari che la alimentano, la persecuzione personale e la storia d’amore, sembrano correre in parallelo piuttosto che incrociarsi, come se ognuno andasse avanti per la propria strada.
Il film è certamente tante cose: uno sguardo ostinato sulla complicata vita di Holiday; il ritratto di una donna che viveva secondo regole proprie rifiutando di abbassare la testa di fronte all’FBI e anche la fotografia di un’America tossica, ipocrita e malvagia, peraltro assolutamente ereditata dagli Stati Uniti di oggi che devono ancora mettere il linciaggio fuori legge. Tutto questo però ci viene mostrato in maniera abbastanza superficiale, affidandosi ad un ritmo episodico e balbuziente che complica ciò che dovrebbe essere semplice e lasciando che siano i numeri musicali a prendere il sopravvento. Insomma, un film che racconta con note stonate la storia di una grandissima cantante, una martire che non voleva esserlo, resa tale da coloro che si sono prefissati di farla tacere e che così facendo l'hanno resa un'icona che resterà per sempre al di là del suo straordinario e indiscutibile talento.