Tornato a casa e recuperato (in parte) il sonno perduto, il giudizio sul Palmares di Cannes non cambia: confuso l’ho giudicato a caldo, confuso lo trovo anche adesso a partire dal film che ha vinto, a mio avviso in maniera assolutamente immeritata su cui mi dilungo dopo. Ma inconcepibile è anche il Gran premio assegnato a ‘Stars at noon’ di Claire Denis (un evidente contentino al cinema francese) soprattutto se ex-aequo con l'ottimo ‘Close’ di Lucas Dhont (https://www.primocanale.it/cultura-e-spettacolo/9300-broker-close-canne-chiude.html ). E poco senso ha l’aver addirittura istituito un premio particolare – quello per il 75esimo anniversario del Festival – per darlo ai fratelli Dardenne che con ‘Tori & Lokita’ hanno ripetuto lo stesso film che girano da decenni. L’unico riconoscimento – oltre a ‘Close’ – che approvo senza se e senza ma è quello per ‘EO’ di Jerzy Skolimoski, certo non un film facile (protagonista un asino, https://www.primocanale.it/cultura-e-spettacolo/9035-eo-storia-di-un-asino.html) ma di grande poesia.
Detto questo, passo al vincitore. Lo svedese Ruben Östlund è uno di quei registi che genera passioni da un lato e odio feroce dall’altro, di solito in parti uguali. Con le sue satire sociali, spara a destra e a sinistra senza farsi alcun problema e ‘Triangle of sadness’, non è da meno. Il titolo (‘Il triangolo della tristezza’) si riferisce a un’espressione della chirurgia estetica riferita alle modelle indicando lo spazio compreso tra le sopracciglia che spesso, per evitare inopportuni inestetismi, necessita dell’intervento del Botox.
Ed è con due modelli che parte il film, Carl e Yara, che navigano nel mondo della moda mentre esplorano i confini della loro relazione. La coppia è invitata ad una crociera di lusso con una galleria di passeggeri super ricchi tra cui un oligarca russo, un trafficante d'armi inglese e un capitano alcolizzato che cita Marx e non vuole mai uscire dalla sua cabina. L'incubo inizia nel bel mezzo di una tempesta che scoppia durante una cena cui seguirà un naufragio lasciando un pugno di persone abbandonate al proprio destino, costrette a sopravvivere su un’isola dove la gerarchia di bordo viene invertita dal momento che una donna delle pulizie emerge come l'unica persona attrezzata sia per procurarsi il cibo che per prendere le opportune decisioni sulla sopravvivenza del gruppo.
‘Triangle of sadness’ è una satira nera contro la cultura banale della moda, l'insensatezza degli influencer nei social media, la stupidità e la superficialità del nostro tempo dove il successo si misura da quanto denaro viene speso nel modo più assurdo, o meglio, da come viene mostrato. Siamo quindi nel campo della caricatura grottesca e all'interno di una ironia che mira a prendere in giro i ricchi e la loro arroganza, l'atteggiamento del mondo della moda, i ruoli gerarchici tradizionali nelle differenze di classe. Il quadro è interessante ma il problema è il pennello che viene utilizzato per disegnarlo, ovvero la messa in scena, che è grossolana e senza stile annullando quasi completamente l'efficacia dell’assunto.
Certo, se poi c’è gente che si diverte a vedere per venti minuti persone che vomitano e i bagni che traboccano di ogni schifezza, è un altro discorso. Ma è proprio su quello che il regista fa forza affinché lo spettatore possa condividere la sua visione del mondo e per una volta porsi al disopra dei ricchi e ridere di loro. Questa orgia di escatologia è portata a livelli di delirio, se vogliamo in stile Monty Python con la differenza che il gruppo inglese nella sua folle anarchia aveva comunque un senso della misura che manca completamente ad Ostlund.
È il film di un regista pomposo e ipertrofico (durata: due ore e mezza), perso nel suo stesso eccesso narrativo capriccioso. La metafora del naufragio del capitalismo lascia il posto a una lettura sulla sopravvivenza in cui i ricchi agiscono come parassiti e il patriarcato si trasforma in matriarcato, come se la fine di un mondo portasse con sé l'utopia di un altro mondo. E sul discorso della lotta di classe ‘Triangle of sadness’ non ha né la stessa intelligenza di ‘Parasite’ né il genio di ‘Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare di agosto’ della Wertmuller che vale almeno tre volte tanto, uscendo dai binari mentre scivola in una farsa grossolana e dimostrando alla fine che non si può far satira sulla superficialità umana in maniera superficiale.