A volte non c'è niente di meglio della finzione per evidenziare la realtà e la regista spagnola Carla Simón, con 'Alcarras', che ha vinto l'Orso d'oro al Festival di Berlino nel febbraio scorso 39 anni dopo l'ultimo successo di un film iberico in quella manifestazione, ce ne dà l'esempio più concreto: un affresco naturalistico che altro non è se non la sublimazione di un luogo e di una stagione che annuncia la fine di un'era.
Il titolo si riferisce a un piccolo paese della Catalogna dove uno dei settori economici fondamentali è l'agricoltura e in particolare la coltivazione delle pesche. Qui la famiglia Solé da diverse generazioni sfrutta una piantagione di questi alberi da frutto su un terreno che non possiede ma che uno dei loro predecessori ha ottenuto formalmente dall'antico proprietario in segno di gratitudine per avergli salvato la vita durante la guerra civile. Adesso però il pronipote non vuole sapere più nulla di quell'accordo verbale e dà un ultimatum ai Solé affinché, una volta raccolti i frutti alla fine dell'estate, cessino la propria attività perché il terreno verrà dedicato alla posa di pannelli solari che ha già installato da altre parti con significativi vantaggi economici. Decisione che provocherà una profonda spaccatura tra i vari componenti della famiglia.
C'è qualcosa di magico e perfino di mistico nel coltivare la terra: curare un campo, alimentarlo, dedicarvi lavoro e sudore in cambio di cibo e sostentamento. Un equilibrio perfetto che ripaga la fatica con il dono stesso della vita, dettando anche il trascorrere del tempo. 'Alcarras' ci presenta il crollo di questa bellezza perfetta. Carla Simón evidentemente sa cosa significhi vivere in campagna esprimendo la sua preoccupazione per la perdita del ricambio generazionale ma ha voluto anche ritrarre quel sentimento di unità e appartenenza che lega sopra ogni cosa affrontando con affetto i problemi che sorgono con la convivenza di tre generazioni che vivono sotto lo stesso tetto, dal nonno ai genitori ai figli adolescenti.
Il suo è un film coraggioso perché interroga ciascuno di noi. Attraverso un approccio naturalistico ci rende partecipi della vita quotidiana di questa grande famiglia, ci invita alla sua tavola, ci impegna nella raccolta, ci fa partecipare ai giochi dei bambini ottenendo un coinvolgente effetto di vicinanza, un legame che sembra sciogliere i confini, cancellare ogni diversità tra chi recita (tutti attori non professionisti) e chi osserva. Sullo sfondo, alcune ossessioni: la campagna, l'infanzia e soprattutto una continua lotta con l'accettazione del dolore.
Probabilmente un quarto d'ora di meno avrebbe giovato alla compattezza del film, ci sono scene che suonano superflue, una manifestazione di contadini che distruggono migliaia di chili di pesche sembra uscita da un film di Ken Loach e stona un po' col tono complessivamente elegiaco della vicenda ma è un dettaglio per quello che in definitiva è un canto alla famiglia e all'amore per la terra che sottolinea il dramma del crescente abbandono della campagna vista come il più grande generatore di cibo mai esistito. E il cinema di Simon si rivela un cinema di coscienza verso se stessi e tutti coloro che non comprendono la devastante rassegnazione di chi, come la famiglia Solé, vive momenti dolorosi ma cerca in ogni caso di sanare in qualche modo le proprie ferite.