Il 1978 è sempre più lontano, ma la figura di Aldo Moro (rapito dalle Brigate Rosse il 16 marzo in via Fani, fatto trovare ucciso il 9 maggio in via Caetani, inquietante in equidistanza geometrica tra Piazza del Gesù e via delle Botteghe Oscure) continua a far discutere, forse ossessionare, il mondo della cultura e quello della politica: dopo "Buongiorno, notte" del 2003, Marco Bellocchio è appena tornato sull'argomento con "Esterno notte". Il riferimento all'oscurità è lampante, così come Leonardo Sciascia - componente all'epoca della commissione d'inchiesta specifica - ricalcò addirittura Emile Zola e il suo impegno sul processo Dreyfus per titolare il suo pamphlet "L'affaire Moro", uscito da Adelphi nel 1983.
Di Moro si è detto tutto, forse, cioè niente. La sua eliminazione passò, nella vulgata, come la mossa di Cia e Mossad e addirittura KGB e, perché no?, Spectre, per togliere di mezzo l'uomo che si era battuto con successo (nella mattina del suo sequestro venne votata la fiducia a un esecutivo Andreotti appoggiato anche da Berlinguer) per superare il "fattore K", ovvero la preclusione atlantista, occidentalista e vaticana nei confronti del PCI, ritenuto - non del tutto infondatamente - fino allo scioglimento dell'URSS un proconsolato sovietico in Italia, uno Stato nello Stato chiuso ed efficiente. Sarebbero stati gli stessi terroristi, in sede processuale, a far cadere questa ricostruzione: banalmente Moro era stato rapito, disse Moretti capo delle Brigate Rosse in aula al Foro Italico, semplicemente perché dopo molti sopralluoghi la sua scorta era stata (purtroppo a ragione) ritenuta più vulnerabile di quella del bersaglio primario, ovvero quel Giulio Andreotti passato - sempre secondo vulgata - come il Pilato determinante per la morte del rivale, se non addirittura mandante occulto. Quando si dice, appunto, la banalità del Male.
Marco Follini, una lunga carriera politica cominciata nel movimento giovanile DC proprio all'ombra di Moro, vicepresidente del consiglio per soli quattro mesi nel secondo governo Berlusconi, protagonista delle varie fasi della diaspora democristiana in quella che si chiama forse impropriamente Seconda Repubblica, prima nel centrodestra e poi dal 2006 nel centrosinistra con tessera PD, da cui esce nel 2013 dopo aver preso atto della persistenza dominante dell'anima socialista del partito, è uno di quegli uomini postumi, che si accorge non troppo tardi che avrebbe forse dovuto fare altro nella vita. Un intellettuale prestato alla politica e mai più restituito.
Adesso, Follini ha scritto Via Savoia - nel labirinto di Aldo Moro (La Nave di Teseo), il memoriale di prima mano di un allievo ed estimatore del professore barese passato alla storia per l'eloquio tacitiano e contorto (le famose "convergenze parallele") e la visione utopistica, ma in fondo rassegnata, della politica. Fin dalla scelta della foto di copertina è trasparente l'intenzione di evidenziare il connotato storico di Moro: la sua solitudine.
Della testimonianza editoriale di Follini si parlerà sabato 2 luglio alle 17, all'Auditorium del Museo del Mare (Calata Ansaldo De Mari 1), per un evento organizzato dall'associazione "Italia Futura". Interverranno, con l'editorialista di Primocanale Franco Manzitti come moderatore, lo stesso Follini e Raffaella Paita (deputato di Italia Viva), Annamaria Furlan (segretario generale della Cisl) e Maria Pia Bozzo, presidente del circolo culturale "Aldo Moro".