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Un anno da cronista nella comunità ucraina di Genova, fra i mille profughi e la solidarietà dei genovesi nella chiesa di Santo Stefano e il giardiniere che parte per il fronte per difendere la Patria
4 minuti e 40 secondi di lettura
di Michele Varì

GENOVA -Come dimenticare il pianto di Oleh, imprenditore risoluto e determinato anima della comunità ucraina a Genova che la mattina del primo giorno di guerra appena si trova davanti la telecamera scoppia in lacrime in diretta e fugge dal microfono come un bambino lasciandomi lì, senza parole e con gli occhi lucidi pure io.

Il mio 24 febbraio 2022 scoppio del conflitto non potrò mai dimenticarlo: la notizia, la guerra in Ucraina mi piomba addosso e la vivo, anzi, la viviamo, io e Francesca Cangiotti, la cameraman, con cui allora facevo coppia fissa per le dirette del mattino, come un macigno quasi impossibile persino da immaginare.

Abituati a rincorrere la notizia del giorno, da quelle belle come il compleanno di un centenario o la pugile genovese campione d'Italia, lo ztl di Nervi che fa arrabbiare i nerviesi, la paura di vivere sotto un viadotto, la storica  discarica di Quezzi finalmente bonificata, l'ennesimo incidente stradale mortale, il maxi incendio della notte, i drammi dei padri separati, persino il femminicidio nel suo negozio di una donna, il covid che sfuma e l'inchiesta sulla strage di Ponte Morandi di fronte alle bombe che cadono in Ucraina perdono peso e si sgonfiano.

La guerra, almeno io, non riesco neppure a immaginarla, per questo sarei corso subito a Kiev e dintorni se ci fosse stata un'occasione per raccontarla e viverla da inviato.

Il mio conflitto così lo vivo qui, da giornalista a Genova, raccogliendo frammenti di dolore che si spiaggiano dalle nostre parti, e molte volte ascoltando le parole dei profughi si avverte distinto l'angoscia di chi passa le notti sepolto in cantine fredde e umide per sfuggire alle bombe.

Un pugno allo stomaco è la prima famiglia che arriva a Genova da Leopoli: la cercano tutti i giornalisti, noi per caso la intercettiamo per primi in piazza Tommaseo dove li ospita una zia, una badante da anni in Italia: c'è Helena, una fisioterapista, con tre figli, il maggiore, Maxim ha 13 anni, Caterina 8 anni, il piccolo, Dennis, invece frequenta l'asilo, profughi che quasi non parlano quanto sono spaesati e impauriti, una paura che gli si legge negli occhi. E la loro foto pur con i visi dei minori coperti, che io però ho visto integrale con il loro sorriso smarrito, a rivederla ora quasi mi fa vergognare, mi fa sentire un ladro di privacy, di intimità.
Quei bambini che sino a ieri erano nella loro casa, con i loro amici, i loro giocattoli, le loro certezze, i nonni, la scuola, all'improvviso erano stati catapultati qui come fiori recisi. Fiori con il papà rimasto lì a combattere.

No, io continuo a non immaginare come si possa fare la guerra da aggressori.
Sarà che da ragazzo sulla copertina rossa del diario delle medie avevo appiccicato un solo adesivo giallo, "peace", e quando mi avevano detto che dovevo fare il militare e indossare una divisa l'avevo trovata una violenza.

Sì, la Guerra di Piero di De Andrè, io al conflitto avrei fatto la stessa fine, troppo innaturale sparare a una persona perchè te lo ordinano, come è successo ai soldati russi. Troppo facile ubbidire, più difficile è resistere.

Tutto cambia se invece bisogna difendersi da chi ti aggredisce: se mi trovo un ladro violento in casa eccome se mi difendo, mi è capitato per strada per un pazzo che mi ha aggredito per una precedenza, eccome se mi sono difeso. Per questo capisco la resistenza ucraina. Come i nostri partigiani, i mie eroi, che hanno dato la loro giovane vita per liberare l'Italia dal nazifascismo.

Tante le storie raccolte nelle prime istintive manifestazioni gonfie di incredulità manifestazioni a De Ferrari, sul sagrato nelle viscere della chiesa di Santo Stefano, un avamposto di Ucraina a due passi dallo struscio di via Xx Settembre, diventata un approdo, il quartiere generale dei profughi ucraini, una resistenza civile e di preghiere plasmata da padre Vitaly Tarasenko, con cui per mesi ci siamo visti ogni mattina. Caffè e padre Vitaly, era così allora. Giorni di girotondi intorno alla fontana di De Ferrari, con le donne ucraine a cantare l'inno con le lacrime agli occhi.

Sul sagrato della Santo Stefano è approdata anche la grande solidarietà dei genovesi, importanti e anonimi, con il maxi suv o l'utilitaria piena di aiuti, che si presentavano ogni mattina, discreti, con sacchi pieni di abiti e cibo. Ricordo la nobildonna emozionata, il benzinaio di Sant'Ilario così entusiasta di fare la sua parte.

Tante le storie intercettate, ma fra le tante alla Santo Stefano quella che più mi è rimasta dentro è stata quella di Vladmir, giardiniere a Genova con un passato e pure il fisico granitico da soldato che per difendere il suo Paese ha lasciato le sue certezze per correre al fronte.
Da brividi il saluto e la benedizione ufficiale sul piazzale della chiesa della comunità e di padre Vitaly prima della partenza, con tanto di visore notturno in regalo, un giocattolo di guerra che io sino ad allora avevo visto solo nei film, per combattere anche di notte in regalo.

"Certo che ho paura ma in Patria ci sono tanti rgazzi che stanno morendo per liberare il nostro Paese e la rabbia mi brucia dentro" disse Vladmir determinato guardandomi negli occhi prima di partire per il fronte.

Poi Vladimir è sparito, come inghiottito dalla sua guerra. E io sono rimasto qui, quasi colpevole di non poterlo seguire, ogni tanto chiedo a padre Vitaly sue notizie. Mi dicono che è vivo: chissà se ha ucciso, penso, io lo sta aspettando, per abbracciarlo, e pure intervistarlo s'intende come a chiudere un cerchio che spero possa suggellare finalmente la pace, quella "Peace" come l'adesivo che ogni ragazzo dovrebbe avere sulla copertina del proprio diario.

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