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di Mario Paternostro

Cara Silvia, ho letto con grande interesse la tua analisi “on the road” sullo status esistenziale dei giovani a Genova. Ahimé, Silvia, argomento antico quanto la storia di questa città che, anche noi che abbiamo lavorato nei giornali tanti anni fa, utilizzavamo spesso per sollevare un dibattito. La città noiosa, la città vecchia perché occupata e dominata da una stragrande maggioranza di anziani, la città a misura di ultrasessantenne, la città pigra. Anzi, c’erano gli aggettivi che meglio ci servivano per fare i titoli: Genova chiusa e grigia.

Non rispondo certo per sostenere che Genova sia uno spumeggio assoluto. Ci mancherebbe. Via Venti, corso Italia, il centro non luccicavano di neon (allora ci illuminava il neon…) dei locali, che non si chiamavano ancora discoteche. Parlo degli anni Settanta del ‘900: erano pochi, pochissimi. Il Maddox di Piccapietra se ricordo bene. Il Paips di Nervi. Affollatissimi. Brillava solo la riviera, da una parte al Covo di Santa Margherita dall’altra al Calypso della Pineta di Arenzano. Ma non erano posti da studentelli squattrinati.
Non avevano nemmeno la possibilità di bazzicare il centro storico perché non era stata fatta ancora alcuna operazione di recupero dei vicoli. In casa ci raccomandavano di non andare da soli a Ravecca o a Pré dopo le otto di sera… Che cosa rischiavi?

C’erano solo contrabbandieri di sigarette e prostitute. E per mangiare qualcosa si finiva dalla benedetta Maria di vico Testadoro (“Maria come è la pasta?”. “Buona buona!” “E le acciughe?”. “Buone buone!”), che magari ci trovavi Fabrizio e allora la giornata girava bene. O più avanti quando qualche soldo lo guadagnavamo, all’Europa dei mitici Ardoino, rigorosamente dopo mezzanotte per aspettare gli attori dello Stabile, Tullio Solenghi, Mariangela Melato, Eros Pagni accompagnati dai vulcanici Carlo Repetti e Marco Sciaccaluga.

Eravamo molto fortunati noi. E’ vero. Vivevamo la città così, inventandoci le serate nei luoghi-amici con pochi amici, dove se volevi consumavi e sennò stavi al tavolo di qualcuno che consumava, a chiacchierare. Vivevamo nell’”isola di Genova” con la Camionale e basta, senza telefonini, piattaforme, tiktoktak, solo con i cinematografi e i teatrini, i baretti studenteschi privi di ricchi “appe” ma fornitori perenni di amaro Santamaria e le osterie nelle quali mangiavi con poco. Dal Palestro dove il maestro Colombi, pianista sui transatlantici ormai a riposo suonava, magari accompagnando Vittorio e Giulia Centanaro, lui con la sua poetica chitarra, lei con le canzoni dei trovatori francesi, o più su, l’inossidabile “sciuta e menestrun” di quel locale dallo scarso menu e dagli scarsissimi costi, che il più geniale dei critici cinematografici, Tullio Cicciarelli, aveva soprannominato affettuosamente “Il Troglodita”.

Non c’era l’Erasmus e forse questa assenza è stata una delle nostre più gravi mancanze formative. Perché magari sappiamo il francese, ma non l’inglese a parte i testi dei Pink Floyd o dei Queen.

Per il resto, cara Silvia, i sogni erano gli stessi di oggi, sistematicamente svuotati dalle realtà dello studio pesante, del lavoro che, questo sì, si trovava con più facilità, magari meno quando era “strano” come fare il giornalista (“Fai il giornalista? Figurati….E non il medico come tuo papà?” molesto ritornello), qualcuno si sposava presto perché aveva qualche soldo e la convivenza non era frequente. Ma quel “tempo libero” lo inventavamo sera dopo sera, pezzo per pezzo come un puzzle, proprio perché non eravamo né a Milano, dove già molti cominciavano a emigrare anche perché allora là si poteva vivere e non sopravvivere, né a Barcellona, Siviglia, Alicante dove i nostri figli Erasmus hanno conosciuto altri coetanei, allargando la visione della vita e del futuro. Così spesso si stava in piazza: davanti alla gelateria Reati di Spianata Castelletto dove proprio con Carlo nascevano i copioni della compagnia teatrale del Caracalla, eccezionale terapia alla noia giovanile, o in piazza Alimonda, o d’estate verso Boccadasse e oltre…

Già Silvia, finivamo anche noi sul mare. Che d’inverno non ce lo colonizzavano milanesi. Era tutto nostro, solo e esclusivamente nostro.

Ma basta ancora il mare a Genova? Onestamente ho qualche perplessità, anche se almeno dalla primavera in poi, a Genova si vive climaticamente meglio che in Padania. Occorrerebbero almeno due città a disposizione, una invernale e una estiva, una senza onde e vento, ma zeppa di fermenti e occasioni, l’altra “sarvega” come i gatti, ma bagnata fino alle caviglie e anche più su.
Forse a noi del dopo Sessantotto ci ha aiutato a andare avanti l’assenza di divertimenti pronti all’uso. Voglio dire che negli anni ’70, non erano tutte rose e fiori, c’era il terrorismo, che molti di noi hanno superato quasi senza accorgersene, ma a vent’anni è possibile anche questo. Dunque lo sforzo per “divertirsi” era totalizzante. Magari anche per questo è stata una generazione di “creativi”.

Però cara Silvia, no, il mare non bastava allora e non basta oggi. Penso che ai giovani questa città debba offrire il massimo possibile perché restino e arrivino anche, viva l’Erasmus e il mondo da frequentare, ma stiamo attenti a non richiuderci rassegnati tra le mura del Barbarossa per comodità spicciola. Qui si sta bene, ci conosciamo tutti, abbiamo ancora il negozio sottocasa, sentiamo dire “belin” e pucciamo la focaccia nel caffelatte e allora ci emozioniamo…. Eppoi non c’è la nebbia!

C’è la macaja che è tutta un’altra storia… Ma neanche la macaja col suo fascino inquietante, può essere il toccasana alla noia.

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