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di Luigi Leone

Alla fine, i candidati sindaco per le prossime elezioni comunali di Genova sono sette. Soltanto due di loro, però, hanno una  vera possibilità di vincere la contesa. Chi sono? Non ve lo dico, in segno di protesta contro le norme sulla par condicio. Le trovo discriminatorie, insensate, ingiuste. Chi si occupa di politica e chi semplicemente si tiene informato, tuttavia, sa perfettamente chi siano le due persone in questione. Il che testimonia, ove mai ve ne fosse bisogno, quanto inutile sia la par condicio. Anzi, l'impar condicio.

E sì, perché negli ultimi quarantacinque giorni di campagna elettorale la cosa funziona così: tutti, ma proprio tutti, hanno il diritto, per legge, di usufruire dei medesimi spazi televisivi. Per rimanere a Genova, i due candidati che si giocheranno la vittoria finale saranno nelle medesime condizioni dei cinque che, al contrario, non hanno alcuna possibilità di farcela. E che neppure si avvicineranno alle performance dei primi due.

Secondo un sondaggio commissionato proprio da Primocanale, oltre il 70 per cento dei genovesi ritiene la par condicio da abolire oppure da correggere. Credo che non sia un caso. Ora, non voglio certo fare io il discriminatore o, peggio, l'antidemocratico. E tuttavia, non si può non essere d'accordo con chi ritiene che la normativa così com'è concepita non stia in piedi. È inspiegabile che si applichi alle televisioni, nazionali e locali, e non alla carta stampata, ai siti web e ai social. Inoltre, andrebbe apportato qualche correttivo nei meccanismi a monte della campagna elettorale, quindi anche della par condicio. In realtà è stato fatto, ma in senso opposto. Si è ridotto, cioè, il numero delle firme necessarie alla presentazione di una lista. Ritengo che se si fosse voluto rendere un buon servizio al Paese, quel numero sarebbe dovuto aumentare. Altro che diminuirlo!

La rappresentanza nelle istituzioni va garantita passando attraverso regole che non rendano inutilmente pletorica la contesa elettorale. Da sempre, è il seguito a fare la differenza. Un'opinione va liberamente espressa e ci devono essere tutte le tutele perché ciò avvenga. Ma quando si tratta di introdurla in un consesso eletto, come il consiglio comunale o una delle due Camere, allora ci vogliono i numeri. E dei numeri adeguati dovrebbero servire anche per poter avere diritto alla candidatura. Così come dei numeri dovrebbero almeno differenziare gli spazi su tutti i mass media, nessuno escluso, fra i candidati con più possibilità e quelli con chance minori. Si può discutere sulle formule (ultimo risultato elettorale, ultimi o ultimo sondaggio e via dicendo), ma qualcosa va fatto. Se proseguirà l'andazzo attuale, bisognerà parlare di democrazia taroccata: non è bello.

Alla fin fine, dovrebbe semplicemente guidare il buon senso. Ma quando c'è di mezzo la politica le cose vanno diversamente. Mi vengono in mente le tante critiche mosse contro l'eccesso di sigle sindacali su vertenze per le quali, al contrario, sarebbe stata sufficiente la presenza di tre, quattro, cinque organizzazioni. Bastavano e avanzavano per rappresentare oltre il novanta per cento dei lavoratori. E difatti, lì la politica si dichiara pronta a intervenire per porre un freno a movimenti che rappresentano poco più dei loro leader. In realtà finora niente è stato fatto, ma almeno ci sono le parole. Se si tratta di candidature e poltrone, invece, certi pur ovvi ragionamenti non valgono più. Neanche a parole. Dov'è l'errore?

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