Bar, ristoranti, alberghi, stabilimenti balneari: tutti sono alla ricerca di personale. Sembra una follia, ma in Italia i cosiddetti lavoratori stagionali sono misteriosamente spariti nel nulla. Eppure sono da sempre un caposaldo dell'industria turistica. La Liguria, che dal turismo trae una larga fetta del proprio Pil, è ovviamente fra le regioni più colpite dal fenomeno. E nella contesa elettorale che agita soprattutto Genova, al voto il prossimo 12 giugno per la scelta del nuovo sindaco, l'argomento trova ospitalità in particolare quando arrivano i big nazionali dei partiti.
Di regola è il reddito di cittadinanza a finire nel mirino: "Siccome mi pagano per stare a casa, non ci penso proprio a farmi avanti per andare a lavorare". Ho l'impressione che sia una visione un tantino superficiale. Si può anche non essere d'accordo, ma il problema non credo si risolva abolendo il reddito di cittadinanza. Dato il quale, comunque, bisogna rendere conveniente andare al lavoro.
E qui si tocca il vero nervo scoperto della questione: la bassezza (uso il termine non a caso, perché c'è pure un aspetto morale in tutta la storia) delle buste paga. Il nostro è l'unico Paese europeo dell'area Ocse in cui, fra il 1990 e il 2020, sono calate: -2,9 per cento, contro aumenti che oscillano fra il +276 per cento della Lituania e il +33 della Germania.
In questo scenario è maturato il dibattito sul salario minimo. Che visto così, secondo una definizione senza aggettivi e valutazioni, appare come una scelta di puro e semplice buon senso. Su certi temi, però, è bene guardarsi intorno. E in questo caso si scopre, per esempio, che i sindacati sono contrari. Perché? Secondo alcuni il problema è che il provvedimento metterebbe in discussione la loro stessa ragion d'essere. Può anche darsi.
Però mi convince di più ciò che mi spiegano proprio degli amici sindacalisti, peraltro non della stessa sigla: se stabilisci per legge un salario minimo, tutte le aziende saranno indotte ad applicare quel minimo, con il risultato di livellare le paghe verso il basso. L'unica via di uscita sarebbe quella di fissare un minimo particolarmente elevato, ma qui entreremmo nel campo di una politica che dovrebbe avere il coraggio e la forza di imporre una cosa simile alle imprese. La maggioranza delle quali, siamo onesti, non potrebbe certo permettersela. E difatti anche Confindustria è contraria al provvedimento.
Come si vede, basta ragionarci su un pochino per trovare buoni argomenti contrari ad un apparentemente sensato salario minimo. Io credo che la contrattazione fra le parti resti il metodo migliore per alzare le retribuzioni e trovo difficoltà a non schierarmi con chi sostiene che il primo provvedimento radicale di cui c'è un disperato bisogno sarebbe la riduzione del cuneo fiscale. Cioè la differenza fra quanto l'imprenditore paga e quanto effettivamente finisce nelle tasche dei lavoratori.
Per tornare agli "stagionali", se il titolare di una qualsiasi struttura turistica ligure desse una retribuzione di 1.500 euro netti, cioè una cifra appena normale di questi tempi, vuol dire che in realtà lui dovrebbe pagare 3.000 euro. Risultato: le retribuzioni restano da nuova povertà, le imprese faticano ad alzarle e allora le persone scelgono il reddito di cittadinanza o altre soluzioni meno commendevoli, come il "nero". Certo, c'è anche chi ci specula sopra o chi ci marcia, ma né in un caso né nell'altro siamo di fronte alla maggioranza.
Peraltro, le stranezze del nostro Paese non finiscono qui. Oltre che del "reddito" e del salario minimo, si fa anche un gran parlare di rendere i lavoratori compartecipi degli eventuali utili di una azienda. Bene, benissimo! Se non fosse che pure su queste regalie di fine anno dipendenti e aziende dovrebbero pagarci sopra tutti gli orpelli fiscali di cui siamo improvvidamente dotati. Non bisogna essere scienziati per capire dove stia il problema.