“Creare tavoli di lavoro focalizzati, per sciogliere i nodi che soffocano ogni aspettativa di rilancio della città”. La proposta avanzata da Confindustria Genova durante un’assemblea pubblica dal titolo significativo (“Le ragioni di un insuccesso”) ha incontrato il gelo della politica e generali perplessità sul ricorso a una formula giudicata vecchia e che puzza di concertazione, termine che il vocabolario dell’italico convegnismo ha convertito in sinonimo di cosa per se stessa disprezzabile. Dopo averla cavalcata come inossidabile feticcio al quale appellarsi per cambiare le sorti del Paese. Senza voler fare l’esegesi delle intenzioni degli imprenditori genovesi, che come altre componenti della classe dirigente hanno colpe evidenti dell’insuccesso di cui al titolo dell’incontro, pare proprio si stia giocando sul filo di un equivoco che con sapienza la politica politicante strumentalizza, praticando il consueto scaricabarile.
Punto primo. Che Genova e il Paese abbiano bisogno di decisioni, buone e svelte, è fuori da ogni discussione. Inspiegabilmente, o invece molto spiegabilmente, questa sottolineatura, che pure Confindustria Genova compie, viene ignorata. Eppure il presidente degli industriali genovesi, Giuseppe Zampini, parla esplicitamente di “deficit di responsabilità da parte della politica nel compiere le scelte” e anche di “tempi della politica che non sono sopportabili dal mondo delle imprese”. Gronda, raddoppio ferroviario del ponente ligure, Terzo valico sono i tre macroscopici esempi che dimostrano la veridicità di queste affermazioni.
Punto secondo. I tavoli di concertazione fanno a pugni con l’esigenza di fare presto e bene? L’esperienza ci dice che è così. Tanto più che Genova fra le tante cose di cui è capitale lo è anche dei veti incrociati. Prima di bocciare la proposta, però, forse bisogna porsi un’altra domanda. E’ vecchio e inaffidabile lo strumento o sono vecchi e inaffidabili coloro che fino ad oggi lo hanno utilizzato? Le risposte arrivate da chi stava sul palco dell’assemblea confindustriale – il presidente dell’Autorità portuale genovese Luigi Merlo, il sindaco di Genova Marco Doria e il governatore ligure Claudio Burlando – sono state delle non-risposte: osservazioni a volte fondate (Merlo: “la vera occasione di sviluppo Genova l’ha persa prima della crisi, non durante la crisi”) e valutazioni che hanno persino lasciato di stucco (Burlando: “i conti dell’ente e della sanità sono in ordine”; “io nel 2006 segnalai che c’erano problemi in Banca Carige, dove stavate voi imprenditori?” per la serie che fra un po’ Berneschi neppure lo conosce). Neanche una parola, invece, per dire a Zampini che i suoi tavoli può tenerseli ripiegati in cantina, perché ci penseranno loro, spiegando come e quando, a prendere le decisioni necessarie. Con l’eccezione di Merlo che ha subito aderito, la politica, in quella sede rappresentata dai vertici di tre fra le più rilevanti istituzioni locali, si è limitata a sostenere che il tipo di disponibilità offerta da Zampini è superata, ma non ha avanzato alcuna proposta alternativa, semmai rivendicando qua e là meriti difficili da scorgere. Folgorato sulla via del renzismo, Burlando – e non solo lui – dimentica di emulare il premier nella parte più importante: gli fa il verso come rottamatore del sistema, lui che del sistema (ligure e nazionale) è stato esponente di grande rilievo, ma non si accorge, o non vuole accorgersi, che Renzi la concertazione ha detto di non volerla più vedere neanche in cartolina – per liberarsi le mani dai condizionamenti che hanno ingessato il Paese – ma poi la sta praticando, con spirito diverso dal passato, a piene mani, consapevole che neppure il suo smisurato ego basta per sottrarlo al realismo di decisioni che in democrazia (e con i muri di gomma degli apparati) nessuno può davvero prendere da solo. Probabile che qualcosa potrebbe cambiare, anche a Genova e in Liguria, se si facesse posto ad altri, più freschi e meno compromessi protagonisti. E pure indisponibili a farsi teleguidare da dietro le quinte.
Punto terzo. Gli imprenditori hanno le loro responsabilità e la spruzzata di autocritica arrivata dall’assemblea confindustriale di Genova non basta a cancellarle. Tuttora rimproverano al sindacato di difendere posizioni, contrattuali e di singoli lavoratori, indifendibili, ma poi commettono quello stesso errore, facendo quadrato intorno all’industriale che compie e impone scelte discutibili nel loro impatto pubblico per il solo fatto che sia iscritto a Confindustria. Prendiamo il caso Castellano-Erzelli: c’è stata una lunga e puntigliosa difesa d’ufficio anche quando si è cominciato a sentire odore di zolfo e solo adesso, timidamente, pure Zampini e l’organizzazione che guida cominciano ad ammettere che “qualcosa va rivisto”. Muoversi prima avrebbe probabilmente giovato molto di più alla causa o avrebbe consentito di voltare pagina meno traumaticamente di quanto magari avverrà. Soprattutto, però, gli imprenditori continuano a mostrarsi incapaci di ragionare sui problemi della città in campo aperto, assumendosi l’onere di metterci collettivamente e individualmente la faccia, declinando nomi e cognomi di chi frena, e perché, sulle cose da fare. Devono avere il coraggio, in poche parole, di rendersi invisi a quella classe politica alla cui porta sono da sempre abituati a bussare per risolvere le questioni singole o per cercare sottobanco mediazioni aziendali o di categoria. L’assemblea in nome degli insuccessi genovesi rappresenta solo un piccolo, piccolissimo passo nella direzione di una maggiore trasparenza di questi rapporti. Se Zampini vuole puntare e insistere su una nuova, positiva concertazione, deve cominciare da qui. Gli interlocutori non se li può scegliere, ma il modo di affrontarli sì.
economia
L’EDITORIALE/ Nuovi protagonisti per una nuova concertazione
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