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di Luigi Leone

 

“Finché c’è guerra c’è speranza” è un vecchio film con l’indimenticato Alberto Sordi. Ne abbiamo sentito parlare a iosa in queste ultime settimane e sempre per dire, sostanzialmente, una cosa: nel mondo ci sarà sempre qualcuno pronto a vendere delle armi perché ci sarà sempre qualcuno pronto a comprarle. Con il corollario anche di famiglie “normali” che ci vivono alla grande. Per quanto banale, è la verità.

Lo stesso ragionamento, con qualche complicazione in più, vale per le aziende. Grazie al conflitto in Ucraina e alle altre decine di guerre che devastano il pianeta, ci sono imprese che fanno soldi. Un sacco di soldi. Se le più grandi sono a controllo pubblico, come avviene in gran parte, sono anche gli Stati a smazzare ogni anno fior di dividendi. Accade pure in Italia, dove soprattutto Leonardo, ma anche Fincantieri, hanno conti in crescita proprio grazie alle guerre.

Non è una novità. Solo che da quando le bombe russe sull’Ucraina hanno conquistato la prima pagina, e i ripetuti eccidi in Medio Oriente stanno nel solco, si fa un gran parlare dell’argomento. A Genova, in particolare, la questione non è secondaria, visto che tanto Leonardo quanto Fincantieri danno lavoro a migliaia di persone. Nonostante questo, i due gruppi sembrano porre un problema etico.

In astratto sì. E’ come esigere tasse sulla prostituzione: è di queste ore la giusta polemica sul codice Ateco imposto alle signorine “libere” e pure agli “imprenditori” del sesso, che invece commettono dei reati, vista la legislazione vigente in Italia.

Ma non tutti, in Europa, si pongono il problema. C’è una questione di “realpolitik” in base alla quale alcuni Stati riscuotono annualmente le tasse dalle prostitute esattamente come, sempre nella stessa Europa, ci sono imprese che producono, vendono armi e sostengono il Pil.

Noi dovremmo essere diversi? Nel migliore dei mondi possibili certamente sì. Anche solo per migliorarlo, il mondo. Poi, però, ti accorgi che il tuo sacrificio servirebbe a poco. Anzi, proprio a niente. Ci sono esponenti politici, e financo dei partiti, secondo i quali Leonardo e Fincantieri non dovrebbero più esistere. E dove li mettiamo le migliaia di lavoratori coinvolti, diretti e dell’indotto? E come recuperiamo i dividendi assicurati allo Stato, quindi alle casse pubbliche?

Siccome non si può, allora ecco la proposta: riconvertire Leonardo e Fincantieri (che ce l’avrebbe più facile, ma solo in parte). Come se fosse semplice. E come se la ricerca per il militare non avesse ricadute sulla vita quotidiana di ognuno di noi (basti ricordare Internet). La realtà è che si cercano risposte semplici a problemi complessi. Drammaticamente complessi.

Il rischio, così, è che tutti potremmo diventare dei Trump: c’è una montagna di debiti da appianare? Violiamo tutte le regole dell’economia e imponiamo i dazi. Tasse di qua, di là, di su, di giù. Poi, quando la frittata è fatta, ecco una bella retromarcia. Condita, magari, da un invito a comprare che puzza tanto di insider trading.

Non funziona così. E neppure può funzionare, almeno non in questi anni, che Leonardo, Fincantieri e le altre aziende italiane, pure private, smettano di fare quel che fanno. Ammesso che sia possibile, se prima non troviamo il modo di evitare i conflitti, non riusciremo mai ad azzerare la produzione di armi. Il resto sono solo sogni. Destinati a diventare incubi.