“Il pensiero va soprattutto e anzitutto alle difficoltà e alle speranze dei nostri concittadini. E’ sufficiente questo”. Così Sergio Mattarella ha accolto la comunicazione ufficiale da parte dei presidenti di Camera e Senato della sua elezione al Quirinale. Poche parole, sobrie, evitando luoghi comuni tipo “sarò il presidente di tutti gli italiani” e via immaginando il vocabolario delle ovvietà. Dice la stessa cosa, in fondo, ma declinandole in modo diverso e soprattutto mostrando di essere saldamente ancorato alla realtà, quando utilizza il termine “difficoltà”.
Sono persuaso fin dal primo apparire della sua candidatura che Mattarella sarà un ottimo Presidente della Repubblica. Ha cultura umana e giuridica, standing politico, schiena dritta e tragedie personali alle spalle – l’uccisione del fratello Piersanti per mano della mafia – tali da renderlo perfettamente e pienamente idoneo al ruolo che lo attende. Con una vocazione alla riservatezza che nell’epoca della politica urlata, nelle piazze come nei salotti televisivi, ne eleveranno ulteriormente la figura.
In questi casi il pericolo di cadere nell’agiografia è sempre dietro l’angolo e non voglio correrlo, ma non posso non pensare che da giovedì pomeriggio – fors’anche da prima – tutti i segugi si siano scatenati nella ricerca dei panni sporchi del nuovo Capo dello Stato. Se non è uscito nulla più di storie antiche come i 3 milioni (di lire) ricevuti come contributo elettorale da un imprenditore e come quella dell’uranio tirata fuori da Beppe Grillo, ma riferita a quando ancora dell’uranio in Kosovo si sapeva ben poco, bè vuol dire che capelli fuori posto Mattarella non ne ha. E che la simbologia della carica che impersonerà, anche in tema di antimafia e di anticorruzione, sarà elevatissima.
Ma parlare di come s’è chiusa la corsa al Quirinale e tacere di Matteo Renzi sarebbe un esercizio di reticenza e di disonestà intellettuale. C’è solo un modo per definire ciò che il premier e segretario del Pd ha “combinato”: capolavoro. Di tattica, di strategia, di lungimiranza. Aveva promesso l’elezione al quarto voto e al quarto voto è arrivata. Aveva fatto un solo nome senza offrire, almeno da parte sua, nessuna alternativa e quel nome ha prevalso.
Nelle ultime quarantotto ore ci siamo tutti affannati a leggere la vicenda con la lente di ingrandimento della politica politicante: Renzi ha “fregato” Berlusconi come Berlusconi aveva fatto con D’Alema ai tempi della Bicamerale, Renzi ha pensato prima di tutto a ricompattare il suo partito e quand’è stato il momento ha pure “ricattato” Alfano & C minacciando di far cadere il governo se non avessero votato Mattarella, Renzi ha preso a schiaffi Forza Italia ben sapendo che sulle riforme non potranno tirarsi indietro perché non è pronta ad andare alle urne; Renzi potrebbe portarci al voto già a maggio per incassare il dividendo dell’operazione perfetta realizzata sul Quirinale e avere così un Parlamento con numeri che gli diano più garanzie di quanto sia oggi soprattutto al Senato.
Tutto questo c’è ed è certamente vero, in modo variamente declinato. Intanto, però, Renzi ha dimostrato che tutte le masturbazioni mentali fatte dai mass media e da una parte della politica sugli accordi inconfessabili, compreso il Colle, maturati nel Patto del Nazareno erano, appunto, solo tali. Renzi, cioè, aveva detto la verità. Non è poco e non sempre gli è capitato.
La vicenda quirinalizia, però, a bocce ferme va riletta anche accendendo il riflettore su una versione più nobile. Renzi ha accompagnato l’annuncio del nome di Sergio Mattarella con il suo miglior discorso da quando è premier e leader del Pd. Anche visivamente si è presentato all’assemblea dei Grandi Elettori senza indulgere al tono scanzonato dell’eloquio o dell’abbigliamento: il Fonzie in jeans, camicia aperta e giubbotto che è in lui ha ceduto il passo a giacca, cravatta e a una mimica facciale seria ai limiti dell’impassibile, senza il minimo sorriso. Il succo del ragionamento: dobbiamo indicare una figura all’altezza del ruolo e capace di dire dei no anche a chi lo ha scelto. Come a voler smentire – e credo che i fatti ben presto si incaricheranno di dimostrarlo – chi riteneva che Renzi puntava su un personaggio incolore e troppo mite per resistere alla sua irruenza fiorentina.
E’ sembrato strano che il premier-leader 2.0, il rottamatore per antonomasia, l’uomo che volle farsi capo del governo per rivoltare come un guanto questo Paese ammaccato e sofferente ricorresse a un reduce della Prima Repubblica. Strano sì, inspiegabile no. Mattarella è un ex moroteo, e già questo molto significa, è un ex democristiano la cui cultura affonda le radici nello stesso terreno su cui Renzi è cresciuto. Compresi l’essere cattolico e avere una propensione evidente a sinistra.
C’è dunque un filo rosso intellettuale, culturale e politico che unisce due persone anagraficamente distanti 33 anni – 73 ne ha Mattarella, 40 appena compiuti il premier – un filo che suona anche come la sconfitta più vera e la scomunica definitiva (al di là di alcuni meriti che pure vanno riconosciuti, come la vocazione maggioritaria o lo sdoganamento di una destra che però ancora fatica ad avere una vera matrice europea) di una Seconda Repubblica incapace di esprimere personalità del livello del nuovo Capo dello Stato. C’è tutta la tradizione della migliore Democrazia cristiana in quanto avvenuto. Così come potrebbe esserci stata la migliore tradizione comunista nelle possibili alternative, se pensiamo ai nomi di altri potenziali presidenti come Pierluigi Bersani, Massimo D’Alema, Piero Fassino, Anna Finocchiaro. Ma anche loro vengono dalla Prima Repubblica, la Seconda non è pervenuta. E non è un caso.
Prese per questo verso, le due giornate di Renzi sono state meravigliose. Un capolavoro, come detto. Ora però, per lui arriva l’impegno più difficile: non pensare che il più sia fatto visto il florilegio di complimenti che gli pioveranno addosso oggi e domani. E’ certo che commetterà ancora, come ha commesso, tanti errori, che indugerà sul peccato dell’annuncite, sulle piccole furbizie tipo il decreto della vigilia di Natale sulle frodi fiscali (con annesso l’aiutino a Berlusconi) e sappia fin d’ora che in quei momenti troverà pronti ad una critica inflessibile anche coloro che adesso gli riconoscono il merito dell’operazione Quirinale.
La vera impresa che Renzi deve compiere è metabolizzare il successo come se non l’avesse ottenuto, rimettersi a lavorare ventre a terra per cercare una soluzione ai tanti problemi degli italiani. Magari con meno arroganza e dando meno spago ai cattivi consiglieri. Se ci riuscirà, e senza la pretesa che tutti siano diventati o diventino renziani, beh allora questo Paese avrà trovato uno statista.
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Ora l'impresa di Renzi è metabolizzare il successo
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