Si dice che l'arbitro migliore sia quello la cui presenza non si nota in campo. A parte che le migliori giacchette nere della storia erano protagoniste eccome, se questa "presunta" regola del calcio si applicasse alla politica Sergio Mattarella primeggerebbe in qualsiasi possibile classifica. Il suo primo discorso di fine anno alla nazione, infatti, è l'apoteosi del grigiore di cui non ti accorgi, venti minuti di parole all'insegna di purissimo cerchiobottismo democristiano. Una storia personale che il Presidente della Repubblica non tradisce mai e che trasforma il messaggio in un florilegio di "ma anche".
Dice, sia chiaro, cose di buon senso, della stessa matrice che ascolti al bar, per strada o sul bus. Magari è un riavvicinarsi al sentimento popolare, però da chi sta seduto sullo scranno più alto della Repubblica ci si aspetterebbero parole capaci di andare oltre. Invece il discorso rimane prigioniero dell'ovvio, una scaletta delle emergenze italiane che parte dal lavoro e via via tocca l'evasione fiscale e contributiva, l'inquinamento e la tutela dell'ambiente, il terrorismo, il dramma dell'immigrazione, la difesa della Costituzione, il ruolo delle donne nel nostro Paese.
Se si vuole, può essere l'agenda di un qualsiasi governo. Ma non c'era bisogno di Mattarella, appunto, per sapere dove si devono mettere le mani. Da lui ci si attendeva una presa di posizione, una sferzata alla politica palesemente inadempiente su tutti i fronti declinati dal messaggio. Invece ecco il Capo dello Stato partire dal lavoro per affermare che le cose vanno meglio, anche se i giovani, i quaranta e cinquantenni che l'hanno perso un lavoro non lo hanno. Così sull'evasione, che vale 122 miliardi e 7,5 punti di Pil, osserva Mattarella, ma è anche vero che la battaglia è in corso.
E che dire dell'immigrazione? Sembra di sentire un leghista quando spiega che chi viene nel nostro Paese deve rispettarne regole e cultura. Quindi occorre rigore, ma anche accoglienza - ed ecco la concessione alla sinistra del Parlamento - abbattendo pregiudizi e diffidenze, senza discriminazioni e muri di sorta.
Il discorso è un incedere a elastico, talmente piatto nei toni da non provocare alcun sussulto. Poi, certo, le reazioni della politica prendono questa o quella parte e la piegano agli interessi di bottega, promuovendola o bocciandola a seconda delle convenienze. Ma nel suo insieme il messaggio resta un temino, che fra l'altro assolve - non citandola mai - proprio la politica.
Qualcuno dice che in realtà la sferza proprio elencando le diverse emergenze. Sarà, ma questa esortazione è così labile che si fatica a coglierla. E allora diventa paradossale il ringraziamento di Mattarella al Pontefice per il Giubileo della Misericordia. Cita il Papa per nome, chiamandolo Francesco, e prova e declinare laicamente il suo messaggio parlando di invito alla "comprensione reciproca".
Proprio in questo passaggio, però, risalta evidente la differenza fra il Capo dello Stato e il Capo del Vaticano. Tanto incolore il primo, tanto esplicito, chiaro e incalzante il secondo. Tanto uniforme nei toni Mattarella, tanto "colorito" ed efficace nelle sue espressioni Bergoglio. In fondo, però, non ci si deve sorprendere. I Papi governano da oltre duemila anni, i democristiani si sono fermati a qualche decennio. Provano a sopravvivere qua e là, ma restano una razza in estinzione. E così sia, con tanti auguri a tutti di Buon Anno.
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Un arbitro che non si nota, ma non è un campione
Il discorso di Mattarella: fiera dell'ovvio e politica assolta
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