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Anniversario della storica vittoria in Coppa delle Coppe a Göteborg, 2-0 contro l'Anderlecht
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Trent'anni dopo, penso ancora a due casse di Dom Pérignon, ai miei genitori, ad Armando e a una bottiglietta di San Pellegrino. E naturalmente a Bruno Galler, che quasi dal centro del campo decise che Vialli non aveva commesso fallo sul portiere, come tutti dalla tribuna credevamo.


Aveva ragione l'arbitro e così accadde qualcosa che rimane, tra le pagine chiare e le pagine scure. La Sampdoria regina d'Europa. Nel modo più bello e tortuoso. Riacciuffando la Coppa delle Coppe sfuggita un anno meno un giorno prima, nella Berna di Klee. Inseguita di nuovo dalla Norvegia alla Germania, da Zurigo a Montecarlo, fin lassù. Il segnale lo aveva dato subito dopo Berna lo Zar, a Cremona terra degli antenati di Mantovani e appunto del numero 9, facendo a coriandoli Maradona.
9 maggio 1990, duemila chilometri da casa, un giorno e mezzo di treno, ottomila presenti a Göteborg, con altri cinquantamila in piazza della Vittoria che davanti al maxischermo si sarebbero persi il raddoppio, sempre di Vialli, perché stavano ancora esultando per il gol segnato tre minuti prima. Si sarebbero rifatti alle cinque del mattino all'aeroporto, vedendo quel pezzo di argento uscire dal portellone del jet Alisarda, scintillare sotto le fotoelettriche sollevato da Pellegrini. E tutto era già accaduto: come fanno presto le emozioni a diventare ricordi, come si spengono se non le custodisci nel cavo del cuore.
Riparlarne oggi mette tenerezza. Per quello che eravamo, che siamo e che saremo, affacciati sul Gran Canyon del tempo che fugge appunto, da onorare con una bottiglia di Dom Pérignon. Uguale a quelle che due ore prima della partita, col sole ancora alto, avevo visto i magazzinieri dell'Anderlecht scaricare da un furgoncino nel loro spogliatoio. Poi le avrebbero regalate agli avversari, che non ne avevano portate.

Fu la notte delle notti, la più bella di tutte. Intanto perché era di notte. Intanto perché “era de maggio”. Ma sopratutto perché fu tutto in una notte. Lo scudetto lo avresti vinto diluito in trentaquattro partite, più importante San Siro o il Lecce? E perché non il Cesena alla prima? Invece quella sera alle otto e un quarto eri la finalista sconfitta dell'edizione precedente, ti sedevi allo stesso tavolo quasi con tutti gli stessi giocatori, quasi per cocciutaggine. E alle dieci e mezza eri per sempre nella storia.

Ripensarci oggi emoziona. Non è perché eravamo giovani, non è perché quel sogno reale si sarebbe sfilacciato di lì a pochi anni ed è consolazione sempre più fioca averlo vissuto davvero. Non è perché quello strano stadio è rimasto casa nostra, anche se non ci siamo andati più, tranne una visita fugace per pochi quindici anni dopo. Non è perché Vialli dallo scorso anno è ancora più Vialli di quella volta là. Non è perché tutti quelli che l'hanno giocata, tutti quelli che erano al Nya Ullevi, tutti quelli che se la sono fatta raccontare o l'hanno vista in dvd, ne parlano come della pagina più bella del libro, anzi come di un libro. Non è perché fu la straordinaria dimostrazione di forza e bellezza del capolavoro di Paolo Mantovani, un uomo concreto come un sognatore.

È forse perché ti guardi attorno e sono troppe le assenze. I miei genitori che erano in tribuna centrale, Armando che aveva la mia età ed era vicino a me e ci eravamo abbracciati quando ormai avevo capito che il gol era valido. Anche loro ormai sono ricordi impigliati in quella notte lontana, in una città lontana, in uno stadio semivuoto. Il punto più alto di una storia che sempre più fatichi a credere sia davvero accaduta. Tutti siamo ricordi di noi stessi.

Amore senza rimpianto e senza confronto, vengono sempre in mente queste parole di un sampdoriano, Ivano Fossati, per cercare di raccontare Göteborg. Da bambino papà ti porta allo stadio a tifare una squadra che quando va bene si salva dalla B all'ultima giornata. Poi qualche anno dopo accade qualcosa, tipo un giocatore d'azzardo scommette tutto su quei quattro colori e ora sei lì, tra migliaia di persone che sciamano da uno stadio verso l'aeroporto, gli alberghi, i pullman, la tua squadra ha vinto la Coppa delle Coppe.

Hai un treno alle tre del mattino e tutti gli amici che lo prenderanno con te chissà dove sono, perché sei rimasto come incantato a guardare lo stadio svuotarsi, sulla strada della stazione ti ritrovi davanti a una pizzeria di italiani ancora aperta, anzi stanno chiudendo ma fa lo stesso, e davanti a una margherita brindi con una San Pellegrino in vetro, perché di birra a scopo anestetico negli ultimi giorni ce n'era stata fin troppa, e poi a cosa brindi? A qualcosa che ricorderai anche fra trent'anni, che ricorderai per sempre. Bisogna aver cura dei ricordi, una volta erano speranze. Alcuni, come questo, senza bisogno di sperarli si erano avverati da soli. E in una notte di maggio che ci si può aspettare, se non una canzone per farsi ricordare da te.