cultura

In concorso convince il film del norvegese Joachim Trier
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  Sulla Croisette è il Matt Damon-day: un incontro con gli accreditati (quelli ovviamente che sono riusciti a trovare il biglietto e confesso che non è stato semplice) e la presentazione fuori concorso del suo ultimo film, ‘Stillwater’ di Tom McCarthy (il regista de ‘Il caso Spotlight’), dove è un operaio di un’industria petrolifera dell’Oklahoma che va a Marsiglia per trovare la figlia che non vede da anni in prigione a causa di un omicidio di cui si dichiara innocente. Non sarà semplice, costretto a scontrarsi con barriere linguistiche, differenze culturali e un sistema legale molto complesso. Tra romanzo, thriller e social un film sull’amore paterno e lo sradicamento che esce dai sentieri battuti in passato su questi temi e dagli archetipi connessi.


In concorso, fossi la giuria comincerei a mettere qualche premio da parte per ‘Verdens verste menneske’ di Joachim Trier. Se nel titolo, in italiano ‘La persona peggiore del mondo’, il regista norvegese non è tenero con la protagonista, nei fatti affronta con affetto e comprensione la vita di Julie,
una trentenne che non riesce a trovare il suo posto nel mondo né a dare ordine alla sua esistenza, per non parlare della vita sentimentale dove la vediamo barcamenarsi tra due relazioni: prima con Aksel, un fumettista underground di quindici anni più grande di lei che si è fatto conoscere e amare con una personalissima versione di “Fritz il gatto”, poi con Evind conosciuto casualmente ad una festa in cui si è imbucata.


Diviso in dodici capitoli, più un prologo e un epilogo, Trier affronta un genere complicato come il dramma romantico e lo combina con il percorso di crescita personale di una donna alla scoperta di se stessa che non è in grado di scegliere tra le infinite opzioni che le prospetta il futuro: è l’uomo giusto? Voglio solo sistemarmi? Sono pronta per avere un figlio? Scelte di questo tipo, semplici e complicatissime allo stesso tempo.


Quello che ne viene fuori è qualcosa di tenero e seducente, gentile e divertente, doloroso e intenso, talvolta surreale come quando – tra le scene migliori del film – Julie percorre le strade di Oslo mentre il tempo per tutti si è fermato, eccetto che per lei e per la persona che va ad incontrare. In più, per me, un piccolo colpo al cuore: nel finale e nei titoli di coda Art Garfunkel nella sua versione di un pezzo straordinario di Carlos Jobim, ‘Waters of mars’, che sottolinea in qualche modo il senso della pellicola di Trier: “E’ una scheggia di vetro, è la vita, è la notte. E’ la morte, è il vento che soffia libero, è un presentimento, è una speranza”