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di Stefano Rissetto

"Non sottovalutate la musica popolare, perché non ha un posto forse di primo piano nella storia della cultura, ma ha un posto immenso nelle storie di ognuno di noi". Sarà forse per questo motivo, una frase riemersa dalla memoria nel fiume scintillante e dolente della "Recherche" di Proust, che da un paio di giorni noi sampdoriani se ci incrociamo piangendo ci viene da ridere, oppure il contrario.

Nel mezzo di questa estate allegra e scavenata, direbbe Pazienza, ci si è spezzato il cuore in mille pezzi, perché se n'è andato un gentiluomo, un grande artista, uno cui era impossibile non voler bene; e poi se è vero che le squadre di calcio sono la colonna sonora delle vite di molti di noi, allora Vittorio De Scalzi aveva scritto la colonna sonora della Sampdoria. Per quasi tutti gli altri vorrà dir poco, per noi è un'altra lontananza che si scava.

La musica popolare diventa qualcosa d'altro, nel gioco degli accostamenti proprio del genio. Chi avrebbe mai pensato che la marcetta disneyana di Topolino sarebbe diventata, nelle mani di Kubrick, un tenebroso inno di morte? Frugando nella memoria parziale e diruta, "Can't take my eyes off you" nel "Cacciatore di cervi" è il sipario/sudario che cala sulla giovinezza di un gruppo di russi in Pennsylvania destinati al macello sul Mekong, "C'è la luna mezzo mare" del paisà Lou Monte è il proemio spaesante alle efferatezze eschilee della saga dei Corleone che pianificano ammazzamenti in margine a una festa di nozze, oppure "Ritornerai" di Lauzi e "I'm on fire" di Springsteen trasfigurate da Moretti ne "La messa è finita" e "Palombella rossa"; un'altra canzone comica italoamericana come "Agita", dell'irresistibile pescivendolo e cantante da matrimoni Nick Apollo Forte, è la porta di accesso al più terribile e angosciante film di Allen sulla colpa dei superstiti e quindi sull'ebraismo, un capolavoro morale travestito da commedia, "Broadway Danny Rose"; sempre rovistando nel baule dei ricordi, "Non sono una signora" che Marinelli stravolge in "Lo chiamavano Jeeg Robot", per non parlare delle stilizzazioni di Sorrentino, che prende "Rossetto e cioccolato" della Vanoni come "Scetate" di Sergio Bruni, "L'orchestrina" di Paolo Conte e "I migliori anni della nostra vita" di Renato Zero e ne fa qualcosa di mai ascoltato prima. Vedete che cos'è la musica popolare?

Ed ecco che Vittorio De Scalzi, rivisto ora che potrà cantare soltanto nei dischi e nei filmati, ci appare in tutta la sua dimensione di ispirato accompagnatore di una storia che per molti conta poco, per qualcuno conta quasi tutto.

La musica e il calcio sono due destini che si incrociano un po' male. Non sempre grandi artisti hanno firmato brani all'altezza di se stessi, mentre l'inno più bello di tutti lo ha scritto il povero Gepy & Gepy, sulla carta d'identità Giampiero Scalamogna, che poi era uno solo e diciamo che non è stato uno dei musicisti più rinomati del suo tempo. Però non dimenticherò mai quella sera del 25 aprile 2010, 80mila persone che cantavano quello splendido "Roma Roma" all'ingresso delle squadre, senza sapere quel che li attendeva, io telefonai a mio padre prima dell'inizio per dire "Vabbe', comunque in campo siamo undici contro undici", quando uscii dallo stadio all'una passata, alla fine della partita più assurda mai vissuta di persona, capii cosa avevano provato gli uruguaiani a Rio sessant'anni prima.

Gli inni sono cose strane. Uno dei più belli non è certo un prodigio musicale, ma a Firenze guai se gli tocchi la "Canzone viola" e hanno ragione, quei versi un po' gozzaniani se li insegnano da padre a figlio, ed è questa cosa che rende l'ospite in tribuna un po' geloso di una storia che passa da una generazione all'altra, su quella marcetta naif e priva dei toni marziali che spesso contraddistinguono le canzoni da stadio. E anche il vecchio inno del Genoa, che nessuno ha mai scalzato in cinquant'anni anche se per farlo si era mosso perfino De André convinto da Baccini, è un gioiello di musica popolare fin dalla denominazione di "Cantico" e dalla prensilità nell'ascolto coinvolgente, che è frutto del lavoro di un musicista colto come Giampiero Reverberi. Qualche anno fa, per una bella puntata di "Liguria Ancheu" dal teatro della Gioventù nell'imminenza di un derby, il prof Peo Campodonico che aveva lavorato al testo aveva portato sul palco, ormai attempati, i suoi studenti di quasi mezzo secolo prima che aveva arruolato come giovani coristi. E anche per la parte opposta, insomma la mia, una cosa così "per il tempo scivolato su noi due" aveva toccato il cuore.

Già, gli inni degli altri. Può capitare di avere una predilezione anche per quelli che non c'entrano con te, a me capita con la "Brabançonne", sarà che un amante del ciclismo non può non sentirsi anche un po' belga per passione, sarà che si lega al ricordo - per esempio - della faccia da discolo di Philippe Gilbert una decina di anni fa sul podio del Mondiale, quasi incredulo per averla combinata grossa in casa degli olandesi a Valkenburg, il posto dove gli arancioni organizzano sempre il Mondiale quando tocca a loro perché è il solo luogo in tutta l'Olanda dove hanno qualcosa che assomigli a una collina, il Cauberg.

Questo per dire che Vittorio De Scalzi, accanto all'immensa carriera "generalista" con i suoi New Trolls, un percorso profondo e sempre in anticipo sui tempi, ci ha regalato due dischi blucerchiati che splenderanno per sempre, come diamanti in mezzo al cuore. A distanza di decenni l'uno dall'altro, segno di una lunga fedeltà, di una speranza che bruciò più lenta di un duro ceppo nel focolare.

Il mio primo direttore, Ernesto Gherardi, un giorno del 1990 mi disse "E tu non sai cosa sta succedendo". E mi fece vedere la prova di copertina di un cd. Era appunto il disco dei fratelli De Scalzi, Vittorio e Aldo, con una decina di canzoni dedicate alla Sampdoria, che aveva appena vinto la Coppa delle Coppe e di lì a poco avrebbe vinto lo Scudetto. Un disco che non ci ha lasciato mai più.

Quel disco ci accompagnò verso il 2-0 a San Siro, con la ristampa arricchita da "Ho uno Scudetto nel cuore" (appunto), bella da strapparti l'anima al pensiero, e da un meritatissimo brano per Roberto Mancini. Ma il percorso di quegli anni era tortuoso anche nella musica: al povero Armando Leonardi, andando a Goteborg in macchina, si era inceppata nel mangianastri del cruscotto la cassetta di "But seriously" di Phil Collins e per tutto il viaggio non aveva ascoltato altro. Io andavo in Europa in treno con gli amici della Vecchia Riviera, che allora era solo Riviera, compresa la sottosezione del Lanna Group, col walkman e una cassetta con "Brilliant Trees" e "Secrets of the Beehive" di David Sylvian, non proprio roba da lanciacori. E in quelle trasferte infinite c'erano sempre "Attenti al lupo" e i successi di Zucchero, compresa naturalmente "Diamante".

"Lettera da Amsterdam" (nella foto, la t-shirt omaggio firmata Giulio "Dr Booga" Ravagni, direttore artistico di Soul Samp) è uno di quegli amori a lenta combustione. Quando uscì il disco, non ebbe tutta questa risonanza. Divenne davvero popolare agli inizi del millennio, quando cominciarono a farla ascoltare all'ingresso delle squadre in campo. Fu un amore a lenta combustione anche per chi scrive. Ammetto che per molto tempo non mi sembrò la canzone adatta per accompagnare una squadra alla battaglia, come accadeva su altri campi. Forse quell'osservazione ingenerosa e miope era frutto del mio malumore per il tempo doriano che stavamo attraversando, il millennio è cominciato da 22 anni e rispetto al passato ci siamo divertiti davvero poco, rispetto a quello che avremmo potuto. Così quel brano di "amor de lonh" mi sembrava fuori contesto, allo stadio. Lo pensavo e lo scrissi.

Vittorio no, ma Aldo De Scalzi amabilmente mi rispose sempre per iscritto, dicendomi che forse di altre cose ero competente, ma che di musica non capivo un cxxxo. Lui ha un cuore immenso ma è fumantino, io non so il cuore ma fumantino lo sono come e più di lui, a mediare pensò Diego Servetto, un bravissimo trombettista ska e anche lui grande doriano. Su tutto il resto chissà, su "Lettera" aveva ragione Aldo. Così siamo diventati grandi amici, dopo "Solo per te" (altra pietra preziosa, che proprio Vittorio apre) gli avevo perfino scritto un testo, per una canzone da far uscire se fosse successa una certa cosa che però non è successa.

Aveva ragione lui, su "Lettera". Lo capii la sera del venticinquennale dello Scudetto, tornavo nella Sud dopo trentun anni di tribuna stampa a Marassi, con la sciarpa giallocerchiata tirata fuori per l'occasione, a fine serata Vittorio e Aldo cantarono proprio quella canzone ed eravamo tutti attoniti per la meraviglia, come in una favola. Una canzone in cui la parola "Sampdoria" non è mai detta, eppure è la più bella mai scritta per Lei. Perché per molti la Sampdoria è come e più di una persona, l'unico grande amore mai tradito. Chi ama il calcio, anche se ama altro dalla Sampdoria, mi capisce.

Ora Vittorio se n'è andato. Non credo di commettere un torto alla sua nobile memoria di artista, qui ricordandolo soprattutto per quello che ha scritto e cantato da sampdoriano. E per due versi delle sue canzoni: diglielo tu, che puoi provare i brividi che dà, oltre i limiti dell'impossibile più in alto delle nuvole.