Cultura e spettacolo

Il film di David Fincher con Michael Fassbender riporta tutto all'essenza del genere 'noir'
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di Dario Vassallo

VENEZIA - Se non ti piace aspettare, quello del killer non è un mestiere che fa per te. Ce lo spiega all’inizio del film Michael Fassbender, assassino di professione, sicario freddo come il ghiaccio, mentre si prepara ad uccidere la vittima designata. Siamo a Parigi e l'obiettivo è un potente magnate industriale di cui noi, così come lui, non sappiamo nulla. La sua casa occupa un intero attico e viene spiato in uno spazio vuoto e buio dall'altra parte della strada. Il killer ha un enorme teleobiettivo posizionato su un tavolo di cui può modificare l'altezza, nell’attesa ascolta le canzoni degli ‘Smiths’ e non deve fare altro che aspettare che l’uomo arrivi. Le regole generali sono semplici: attenersi al piano; anticipare, non improvvisare; non fidarsi di nessuno; vietare l'empatia. Tutto ciò di cui ha bisogno è una frequenza cardiaca inferiore a 60 battiti al minuto e una leggera pressione del grilletto per adempiere al suo contratto.

Ma stavolta qualcosa va storto e quando arriva l’obiettivo uccide per sbaglio al suo posto una prostituta che era con lui. Costretto a scappare si rifugia in una casa che possiede nella Repubblica Dominicana dove scopre che la persona che ama di più (forse un’amica, forse una domestica) a causa del suo errore è stata torturata e si trova all’ospedale in gravi condizioni. Per rimediare è costretto a modificare i suoi metodi, elaborare un piano per salvare la pelle e nello stesso tempo dare la caccia all’individuo che ha ordinato il colpo che è fallito in un viaggio che lo porterà prima a New Orleans, poi in Florida e infine nel Connecticut per ottenere una vendetta soddisfacente nell'unico modo che conosce.

Basato su una graphic novel francese e diviso per capitoli ‘The killer’ potrebbe essere l’ennesimo film su un assassino di professione, un genere eterno e abusato, ma quello che lo rende qualcosa di diverso è che Fincher invece di sovraccaricare la storia lavora per sottrazione riportando tutto all'essenza del genere: quello che rimane è un assassino e la sua coscienza, o qualunque cosa abbia che possa passare per tale. In qualche modo, nelle mani di questo regista, quel focus ristretto espande le possibilità del genere invece di ridurle. L'idea portante è che il sicario di Fassbender, con la sua disinvolta finezza, la sua meticolosità professionale, i suoi rifugi pieni di passaporti, carte di credito, armi e targhe false, è in definitiva qualcuno che trasforma l'omicidio in un sistema e che ha represso ogni forma di empatia. Eppure il motivo per cui deve lavorare così duramente per riuscirci è che, al di là di tutto, prova dei sentimenti. Questo è ciò che conferisce alle sue azioni la loro spinta esistenziale.

Non c’è dubbio che il film debba molto al Jean-Pierre Melville di ‘Frank Costello faccia d’angelo’ con Alain Delon o al Jim Jarmush di ‘Ghost dog’ con Forest Whitaker eppure Fincher gli conferisce un sapore diverso. È vero che in passato si è nutrito più volte di questo tipo di storie ma qui mette abilmente a nudo come l’imperturbabilità possa venire smantellata dalle emozioni e come ciò finisca per costringere anche i più nichilisti a cercare una sorta di autoassoluzione, poco importa se cruenta. E alla fine della sua turbolenta odissea questo killer ci dice che non esiste fortuna, destino o percorso di vita tranne quello che porti dentro di te.