Dunque Silvio Berlusconi non è più un senatore della Repubblica.
L’aula di Palazzo Madama ne ha decretato la decadenza in seguito alla condanna definitiva a quattro anni per frode fiscale. Ne è nato prima, e continuerà adesso, un grande caso politico: per l’applicazione della Legge Severino al Cavaliere senza l’ulteriore passaggio di un parere della Corte Costituzionale e perché per la prima volta il capo di un grande partito viene liquidato dalla politica stessa in forza di un provvedimento giudiziario.
Di tutta questa vicenda, però, ciò che maggiormente colpisce è l’atteggiamento proprio di Berlusconi. Negli anni migliori ebbe a definirsi, e probabilmente si riteneva e si ritiene, un “unto dal Signore”. Nonostante questa smisurata considerazione di se stesso, ha scelto di farsi “licenziare” dal Senato con il marchio dell’indegnità, senza quel sussulto di orgoglio che avrebbe dovuto spingerlo a fare un passo indietro per evitare che sul suo nome si consumasse un dibattito, dai toni e dai contenuti a volte surreali, intorno al fatto che egli potesse non potesse rimanere ancora a far parte del più alto consesso istituzionale. Una situazione inaccettabile e insostenibile per chiunque abbia rispetto di sé, più che mai per chi si ritiene così migliore degli altri da meritare il ruolo dell’uomo solo al comando.
Lasciamo perdere la circostanza che Berlusconi, per i suoi comportamenti disinvolti, abbia da tempo gettato nella spazzatura la possibilità di consegnarsi ai testi di storia come statista. Ma perché ammanettare la sua esperienza politica, che resta importante non foss’altro per il seguito popolare ricevuto, a una pagina di cronaca che avrebbe potuto almeno edulcorare semplicemente vergando due righe di rinuncia? Il vero quesito è infine questo e la sola risposta che sovviene è la contestazione che in tanti hanno mosso per lustri al Cavaliere: pensa solo al suo interesse e il suo interesse è tentare di alzare una barriera ai processi e alle inchieste che ancora pendono sul suo capo e che potrebbero portargli guai ancora maggiori. E’ su questa base – se ce n’è un’altra qualcuno dei suoi cattivi consiglieri lo induca a rivelarla – che Berlusconi ha optato per quel tatticismo che quando discese in campo marchiò a fuoco come “teatrino della politica”, decidendo di battersi per rimanere in Parlamento e facendo di questa battaglia la metafora di un conflitto nel nome della libertà. Sbandierata nel senso più nobile del termine, ma da intendersi, al contrario, come sua libertà di muoversi secondo regole piegate al proprio piacimento e, secondo alcuni, come sua libertà personale, visto che persino correrebbe il rischio dell’arresto.
Colpisce, inoltre, che in questo passaggio cruciale della sua esistenza, il Cavaliere non abbia neppure ascoltato l’imprenditore che è in lui, il quale certamente lo avrebbe pragmaticamente dissuaso dal persistere in una battaglia persa, cercando un più efficace rifugio in un gesto di dignità e umiltà quale sarebbe stato quello delle dimissioni. Una decadenza, peraltro egualmente a quella inflittagli dai suoi colleghi senatori, che non gli avrebbe impedito di essere il leader della sua parte. Come fanno Beppe Grillo e come prevedibilmente farà Matteo Renzi, che non siedono in Parlamento. In Berlusconi, invece, ha prevalso l’arroganza, la volontà di chiamare alle armi il popolo di Forza Italia e farsi difendere – in aula e in piazza - dalle falangi più cieche e disinvolte nello stargli intorno. Ha pure preso la parola davanti ai fedelissimi, parlando di “lutto per la democrazia”, di “magistrati come le Br”, di sentenza a suo carico “che grida vendetta davanti a Dio”. Ha farneticato di riforme istituzionali e costituzionali che pure avrebbe potuto tentare di realizzare nei molti anni in cui ha avuto il massimo del potere e urlato contro “i leader dei piccoli partiti” che badano ai loro orticelli.
Tutto mentre stava precisamente fornendo la plastica dimostrazione che lui per primo si ritiene più importante dei cinquanta milioni di italiani, compresi quanti lo hanno votato e voteranno il suo partito, che dal Parlamento si aspettano di vedere risolti i loro drammatici problemi. Non di essere piegato a un uomo disperatamente aggrappato al proprio interesse. E che insieme con il rispetto verso gli altri ha perso pure quello per se stesso e per quelle pagine della storia politica italiana che comunque aveva saputo scrivere. L’ultima resterà scolpita come la più brutta.
politica
IL COMMENTO/ L'uomo che pensava solo a se stesso
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