“Serve una politica industriale”. Non ci sono governi, istituzioni locali, partiti, sindacati che da anni non vadano ripetendo quelle parole come un mantra. Peccato che proprio a loro - governi, istituzioni locali, partiti e sindacati, ognuno a seconda del ruolo - toccherebbe fare politica industriale. E non la fanno. Prendiamo due casi fra i tanti che stanno agitando queste ore in Liguria: quello dell’Agnesi a Imperia e della Piaggio Aero Industries a Genova. Un filo rosso unisce le vicende dei due storici marchi ed è la totale assenza di una visione strategica che anticipasse, evitandole, le criticità attuali. Perché in entrambi i casi, non sta avvenendo nulla che non fosse prevedibile.
Partiamo dall’Agnesi. Al comando dell’azienda, parliamo di quasi trent’anni fa – il 1987 – c’erano ancora i fratelli Eva e Riccardo Agnesi, rispettivamente presidente e amministratore delegato, quando nel settore cominciarono a imporsi le innovazioni tecnologiche in virtù delle quali quel tipo di stabilimenti avrebbero dovuto avere non più uno sviluppo in verticale, bensì in orizzontale. Diventava chiaro, cioè, che per conservare e magari migliorare quel suo 3,5% del mercato italiano della pasta, dietro la Barilla e contendendo il secondo posto alla Buitoni e alla Amato, l’azienda imperiese avrebbe dovuto prima o poi – più prima che poi – modificare radicalmente la propria struttura fisica. Gli immediatamente successivi rivolgimenti societari, che portarono l’Agnesi prima in mano al gruppo transalpino Danone, poi alla banca d’affari francese Paribas e, infine, nel 1999 al gruppo Colussi (che superò la concorrenza di Malgara Chiari & Forti e di Gazzola) tennero sullo sfondo il problema dello stabilimento. E questo può in qualche misura essere giustificabile.
Ma da quando è arrivata l’attuale proprietà sono trascorsi 15 anni e l’intera classe dirigente imperiese e regionale non si è peritata di porre mano in modo concreto all’argomento, che periodicamente il patron dell’azienda Angelo Colussi ha pur rilanciato, certamente con toni e pretese a volte discutibili, ma ponendo un problema reale. Che, invece, tutti si sono fatti arrivare addosso, fino alle drammatiche fasi attuali. Lo stesso sindaco in carica, Carlo Capacci – che per ragioni cronologiche è meno responsabile di molti altri – avrebbe forse potuto giocare d’anticipo. Il padre, Ciro, è stato anche vicepresidente e amministratore delegato dell’Agnesi e quindi, per questi motivi familiari, presumibilmente il primo cittadino imperiese ben conosceva quali e quanti questioni si muovessero intorno all’antico pastificio.
Ora siamo al redde rationem: Colussi fa sapere che il marchio Agnesi non si tocca, e anzi verrà fortemente rilanciato, ma non pronuncia una-parola-una che contraddica l’intenzione di chiudere lo stabilimento imperiese. La città alza le barricate, ottiene la solidarietà degli altri siti produttivi italiani del gruppo, ma sul fatto che non finisca male si possono scommettere solo pochi spiccioli. Certo, Colussi per rivedere le proprie posizioni avrebbe voluto (vorrebbe?) realizzare uno stabilimento adeguato al nuovo (sic) modello produttivo traendo risorse dallo sfruttamento edilizio dell’area attualmente occupata. Non una richiesta folle, ma neppure una cosa da maneggiare senza la dovuta cautela – e questa da parte del Comune di Imperia c’è – visto che dietro questi “scambi” – non raramente oggetto di un vero ricatto occupazionale da parte degli imprenditori – possono celarsi pesanti e insostenibili speculazioni.
La stessa mancanza di lungimiranza si è consumata a Genova sul caso Piaggio Aero. Quando l’azienda annunciò il trasferimento da Finale Ligure a Villanova d’Albenga diede rassicurazioni sul futuro del polo di Sestri Ponente e la questione fu posta come un’operazione riguardante solo lo stabilimento finalese, dove il Comune della Riviera di Ponente ha accettato la riconversione dello stabilimento a fini edilizi pur di impedire gravi emorragie occupazionali. Ma non occorreva essere un genio delle strategie industriali per capire che Piaggio stava “sfogliando il carciofo” e che sarebbe arrivato il giorno in cui avrebbe ritenuto la fabbrica di Genova un inutile orpello. Del resto, perché rimanere dislocata su due versanti produttivi, a fronte di un investimento massiccio – circa 190 milioni – per il nuovo stabilimento? Il buon senso, prim’ancora che la conoscenza delle dinamiche industriali, avrebbe dovuto indurre nel sospetto che la concentrazione su Villanova sarebbe stata l’inevitabile conclusione del processo. Anche qui, però, nessuna azione preventiva, e placida gestione del “day by day” fino all’esplodere dell’emergenza.
Come le due vicende possano finire è difficile a dirsi: si spera al meglio, si teme il peggio. A Imperia, il sindaco ha lanciato la sfida: “Prendiamoci l’Agnesi”. Ma chi, con chi, con quali soldi? A Genova, la Regione guidata dal governatore Claudio Burlando prova a mettere in fila la questione Piaggio con il caso Alitalia, confidando sul fatto che lo stesso fondo arabo, Mubadala, controlla l’azienda genovese e pure il vettore, Ethiad, in corsa per acquisire la compagnia aerea italiana. Chissà quant’è già spaventato lo sceicco Khaldoon al Mubarak… Idee estemporanee, con buona pace di qualsivoglia politica industriale. Auguri.
economia
L’EDITORIALE/ Agnesi e Piaggio Aero, se non c’è politica industriale
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