economia

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“Riprendiamoci le chiavi di casa prima che sia troppo tardi”. Può apparire uno slogan, in realtà è un’accorata esortazione. Parole risuonate domenica a Viareggio, in chiusura del convegno di Riscossa Italiana, un’associazione che ad onta della propria esplicita declinazione apartitica potrebbe essere iscritta, con una lettura superficiale, a questo o a quel partito euroscettico. Le cose stanno diversamente. L’evento, documentato dalle riprese di Primocanale (sia per la tv, sia per il sito), è passato praticamente inosservato, classico esempio di quanto questo Paese sia ripiegato sulla convegnistica politico-economica da cerimoniale e poco disponibile, invece, a interrogarsi con la realtà, utilmente sbattuta in faccia ai limiti della brutalità.


Accade, infatti, che ad animare Riscossa Italiana non siano politicanti in cerca di poltrone, ma economisti e docenti universitari, che studiano aziende e finanza nazionali e internazionali, e persino un presidente di sezione del Consiglio di Stato. Il suo nome è Luciano Barra Caracciolo e certo non è il tipico no-global. Ma se uno che vive di pane e diritto arriva ad affermare che “i trattati europei incidono pesantemente sulla quotidianità delle persone, provocando la distruzione del nostro patrimonio industriale e trasformando lavoro, pensioni e sanità in morti che camminano, in attesa solo che ne venga certificata l’estinzione”, bè allora qualche domanda deve cominciare a porsela anche chi fino ad oggi ha ritenuto che la moneta unica e i dettami dei trattati europei siano un passo in avanti.


Il primo dubbio, alla luce dei fatti e non di teorizzazioni accademiche, è che Barra Caracciolo abbia ragione quando aggiunge: “Racchiuso nei trattati c’è un disegno che definiamo ordo-liberista e che conduce a una restaurazione del capitalismo sfrenato, quello che stava alla base della crisi del ’29 e che oggi cerca la rivincita con una rigenerazione cosmetica. I vincoli e gli strumenti che vengono imposti dalla politica dell’austerity non ci consentiranno mai di ridurre il debito pubblico né di raggiungere il pareggio di bilancio, ma al capitalismo sfrenato questo va benissimo e per questa ragione nessuno ci toglierà mai la camicia di forza dell’euro, per quante minacce potremo subire”. Che fare, allora? Estremizzando, l’ipotesi di lavoro che scaturisce è in apparente contraddizione con il postulato: creiamo le condizioni per farci cacciare. Come? “Facciamo valere le nostre ragioni sulle violazioni dei trattati commesse dall’Ue e da singoli Paesi come la Germania, cominciamo da una profonda riforma del sistema bancario, restituiamo forza alle nostre aziende pubbliche”. Lo Stato sovrano, in poche parole, torni a fare il suo mestiere. In filigrana, si colgono due possibili esiti da questo tipo di azione: o ci cacciano dall’euro, ma se ci cacciano riduciamo al minimo il costo politico-economico, o ci tengono dentro, ma a quel punto non saremo costretti alla definitiva distruzione di ciò che il Paese ha costruito in passato.


Tesi almeno interessante, soprattutto alla luce del fatto che scaturisce da un paio di altre analisi fondate dalla forza dei numeri e non della filosofia spicciola. La prima è dell’economista Nino Galloni: “Le politiche dell’austerity servono a far andare male i conti pubblici, perché questo consente di emettere titoli tossici su titoli tossici, di cui si nutre il capitalismo selvaggio. Oggi i derivati e i derivati dei derivati valgono 4 quadrilioni, mentre il debito mondiale è di 74 trilioni. Questo vuol dire che il debito mondiale è 55 volte il Pil, ma nessuno lo dice. Invece, ci si strappano i capelli se il debito di un Paese supera di una volta il suo Pil”. La seconda analisi viene da un altro economista, Antonio Maria Rinaldi: “Quanto valgono i mille padri e madri di famiglia che ogni giorno perdono il posto di lavoro? Non so dirlo, ma so che dall’avvento della moneta unica il nostro indice di produzione industriale in rapporto alla Germania è meno 45%, mentre in precedenza era positivo. Coloro che ci hanno portato in questa condizione hanno tradito e svenduto il Paese sapendo di farlo!”.


Da Viareggio echeggia un j’accuse alla politica, ma soprattutto emergono elementi e spunti di riflessione sui quali, considerando il panel dal quale vengono, sarebbe imperdonabile non soffermarsi. E ad essere chiamati in causa sono, prima di tutto, quanti ritengono che l’euro sia la pietra su cui costruire il futuro dell’Europa e, quindi, anche dell’Italia. Osserva l’economista Francesco Lenzi: “Il cambio così forte della moneta unica è un peso anche quando produce vantaggi, come accade con l’approvvigionamento di petrolio. Quella materia prima ci costa meno, ma l’effetto è stato quello di rinviare l’avvio di una vera politica energetica che dica se e come il Paese vuole ridurre la propria dipendenza. Il risultato è che persino quel vantaggio viene vanificato”. Gli si può dare torto?