Ci sono volute altre tre alluvioni perché il Partito democratico prendesse atto, a Roma, che le primarie fissate il 21 dicembre, la domenica di Natale, erano una follia. Non era bastato il disastro di Genova - il 9 e 10 ottobre - affinché il vicesegretario nazionale Lorenzo Guerini prendesse atto dell’insensatezza di quanto pretendevano il governatore Claudio Burlando e la delfina Raffaella Paita: andare al voto prima delle festività, sebbene le ferite aperte nel cuore del capoluogo ligure fossero ben lontane dal cominciare a rimarginarsi.
Pazienza ignorare quei rari settori dell’informazione, come Primocanale, che subito avevano sottolineato l’inopportunità della decisione. La leadership nazionale del Pd era stata soprattutto sorda a quanto sostenevano la segretaria regionale, quella provinciale e moltissimi presidenti di circoli del partito. E più che mai aveva ignorato quella parola, “assurdo”, pronunciata dall’altro candidato alle primarie, l’europarlamentare Sergio Cofferati.
Sull’asse Genova-Roma era corso un tam tam scellerato: chi vuole il rinvio delle primarie lo fa in nome della faziosità anti-Paita. Si arrendano, la signora, il suo mentore Burlando e tutti i supporter anche di comodo (in coda per riscuotere le promesse ricevute) all’idea che la Delfina non è l’ombelico del mondo. Rimandare la chiamata alle urne era banalmente una questione di buon senso, persino un servizio reso alla credibilità del partito e, con esso, a quella della politica.
Nubifragi, fango e frane hanno prodotto la resipiscenza. Meglio tardi che mai, si potrebbe dire. Ma non si può. L’effetto del ripensamento mostra in tutta la sua crudezza la distanza del Pd e della politica dalla realtà delle persone, la debolezza delle leadership locali, incapaci di imporre, anche minacciando di sbattere la porta, e facendolo davvero all’occorrenza, di fronte all’arroganza della precedente scelta. E mostra quanto il sistema di potere alla guida della Regione si preoccupi di succedere a se stesso piuttosto che dei problemi della comunità. Senza la minima assunzione di responsabilità.
Vedi, per esempio, alla voce Paita, interrogata come testimone sull’alluvione del 9-10 ottobre: l’allerta dipende dal livello tecnico e non da quello politico. Un bell’esercizio di scaricabarile, almeno secondo le cronache giudiziarie. Ma anche un esercizio di verità, in fondo: il livello politico è in tutt’altro affaccendato, come ridurre le distanze dai corsi d’acqua per consentire le costruzioni. Al premier Matteo Renzi che ha tuonato contro i governatori e la loro gestione del territorio, Burlando ha risposto a muso duro, rievocando i condoni edilizi varati dai governi italiani. E quel provvedimento, comparso sul Bollettino Ufficiale n. 13 della Regione Liguria il 20 luglio del 2011, non è qualcosa di simile a un condono?
E’ una brutta storia, questa riesumata da Liguria Civica, che chiede di ritirare quella decisione. Ed è una questione che da giornalista mi rode, perché toccherebbe all’informazione disvelare questi e gli altri scempi che hanno portato allo sbriciolamento della Liguria. Con qualche rara e meritoria eccezione, anche la mia categoria – ed io non mi chiamo fuori – ha di che rispondere alla collettività.
L’alluvione porta a valle e rende visibili le colpe di tanti pezzi della classe dirigente. Quella locale e quella nazionale: che fine hanno fatto la dichiarazione di calamità naturale, lo stop al pagamento delle tasse, il rinvio dei versamenti Inps, i fondi per le somme urgenze e quelli per un riassetto più generale del territorio? L’ultima promessa l’ha portata il sottosegretario Graziano Delrio: nelle regioni alluvionate, via il patto di stabilità che ingessa la capacità di spesa dei Comuni anche quando i soldi ci sono. Sempre che alle parole seguano i fatti, come non pensare che forse qualcosa si farà perché nel triste destino dell’alluvione stavolta la Liguria ha avuto la compagnia di Piemonte e Lombardia? Questione di peso specifico…
Le tragiche vicende dell’ultimo mese e mezzo, però, hanno anche fatto spuntare qualche fiore dal fango. Per citarne uno, il "partito" dei sindaci. Quelli dei piccoli Comuni e anche di città più grandi, che senza distinzione di appartenenza si sono rimboccati le maniche, hanno spalato e vegliato, hanno urlato con voce univoca non solo la disperazione loro e delle loro concittadini ma anche la pretesa che la politica politicante faccia un passo indietro, lasciando spazio a provvedimenti veri e concreti, ove necessario disertando gli incontri ufficiali per rimanere al capezzale della loro terra. Sono anche pronti, questi sindaci, a muovere una “marcia su Roma” se dalla capitale non arriveranno presto, efficaci e operative le decisioni che impongono l’emergenza e un piano di più lunga durata per la messa in sicurezza della Liguria.
Questa volta la tecnica degli annunci non incanterà più nessuno. E i sindaci, anche quelli dei piccoli e piccolissimi Comuni, sanno di avere alle spalle una forza nuova e diversa: quella del ritrovato senso della comunità che anima dal basso ogni singolo cittadino. E che va oltre il pur importante, e non nuovo, darsi una mano nel togliere l’acqua e spalare il fango. I liguri sono stanchi, stremati, psicologicamente provati. Ma se sgorgano lacrime, sono lacrime di rabbia e la rabbia, questa volta, non diventa resa alla fatalista osservazione che “tanto le cose vanno come sono sempre andate”. Le macerie non hanno travolto la volontà di combattere. Nell’indignazione generale, l’hanno rafforzata. Ognuno sarà inchiodato alle proprie responsabilità.
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La malapolitica e i fiori dal fango
L'editoriale
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