Sono volati gli stracci. E’ un modo di dire diventato luogo comune, ma fotografa bene quanto avvenuto tra Sergio Cofferati e Raffaella Paita nel faccia a faccia consumatosi negli studi di Primocanale. Dell’assessora la vis polemica era nota, più sorprendente vedere l’europarlamentare menare fendenti che facevano a pugni con la nota mitezza nel suo modo di porsi. Non smentita, peraltro. Perché Cofferati le cose pesanti le ha scandite senza scomporsi, proprio mentre l’antagonista lo provocava a colpi di “sei nervoso”.
Attenendomi al ruolo di arbitro, per il rispetto dovuto a entrambi gli ospiti che hanno accettato di confrontarsi-scontrarsi nei nostri studi televisivi, osservo però che la distanza fra i due è risultata persino più marcata di quanto si potesse immaginare, rendendo persino difficile da credere che possano stare nello stesso partito. E ciò rende più acuto il problema che il Pd avrà di fronte a sé da domenica sera, aperte le urne delle primarie. Da questa vicenda i democratici usciranno profondamente lacerati e rimettere insieme i cocci sarà oltremodo complicato.
Dovranno riuscirci nel giro di pochi mesi, per andare poi alla guerra elettorale di metà maggio contro il centrodestra. Oggi ogni sondaggio e ogni previsione dice che chi domenica strapperà il successo sarà anche il prossimo governatore della Regione Liguria, ma quattro mesi possono essere lunghi, lunghissimi, e modificare anche gli scenari più consolidati. Soprattutto se di mezzo ci sono pure inchieste giudiziarie come quelle sulle “spese pazze” (ultimo indagato il capogruppo pidino in consiglio regionale, Antonino Miceli, successore proprio della Paita) e sull’alluvione del 9-10 ottobre, che sembra puntare dritta verso le mancanze della Protezione civile regionale (delega in mano alla stessa Paita).
Al di là di eventuali “fattori esterni”, tuttavia, quella di un Pd a pezzi è più di una impressione e a ben vedere non nasce dal ruvido fronteggiarsi tra Cofferati e Paita, ma ha un’origine più lontana: la messa in discussione, prim’ancora della candidatura della “delfina”, del “sistema Burlando” anche da parte di chi in quel sistema è nato traendone benefici. In tutte le vicende della vita, arriva il momento in cui i figli si ribellano al padre. La politica non fa eccezione. Soprattutto se i padri diventano padroni e tendono a imporre decisioni e scelte anche quando la loro credibilità è esaurita o in via di esaurimento. E’ questo elemento a provocare il rovesciamento del dato anagrafico, con la quarantenne Paita che mentre sventola la bandiera del cambiamento finisce invece per incarnare la continuità di un sistema, mentre l’ultrasessantenne Cofferati diventa il nuovo perché con quel sistema non ha alcuna compromissione.
Non stupisce, dunque, che Matteo Renzi, premier ma nella circostanza soprattutto segretario nazionale del Pd, si tenga alla larga dalla vicenda ligure. C’è chi lo accusa di insensibilità e scarsa attenzione, ma in realtà mostra di essersi fatto benissimo i conti: non c’è una ragione una perché spenda qualche ora del suo tempo a dirimere una contesa che non gli appartiene e che, di conseguenza, gestirà a cose fatte. Semmai impegnandosi, questo sì, a rimettere insieme il partito una volta che le primarie avranno prodotto i loro effetti. E magari, nel durante, interrogandosi sull’efficacia di uno strumento che in Liguria mostra le corde, per il modo in cui viene utilizzato e per quanto possa essere condizionato da chi con il Pd non c’entra.
Renzi ha il pregio del cinismo (sì, pregio, perché quando si sta lassù non è difetto, ma dote indispensabile) e i conti dev’esserseli fatti anche a proposito della posizione del suoi due ministri liguri. Le loro preferenze personali erano sufficientemente note, ma mi riesce difficile pensare che sia Roberta Pinotti (pro-Paita) sia Andrea Orlando (pro-Cofferati) abbiano compiuto il loro endorsement senza avvisare il premier-segretario. Il quale deve aver semplicemente valutato che cogliere l’occasione di un salomonico pareggio fra i ministri garantisce l’equidistanza del governo su una storia che di governativo non ha nulla, se non la questione di futuri rapporti fondamentali per la Liguria e che Renzi certamente non ha alcun interesse a mettere sul tavolo adesso. Tanto più meditando, più o meno pubblicamente, di mettere mano anche al sistema delle Regioni.
Un solo timore poteva avere il premier: che Cofferati giocasse la sua partita in aperta antitesi con il suo esecutivo, proponendo uno schema politico che facesse da detonatore delle contraddizioni che pervadono le larghe intese romane. Sul punto, invece, il “cinese” è stato rigorosamente ortodosso: “La mia amministrazione sarà nell’alveo del centrosinistra e, comunque, non avrà nulla a che spartire con il quadro nazionale, figlio di altri scenari”. Ha fatto di più, l’ex leader della Cgil, appellandosi al rispetto dell’indicazione del Renzi segretario Pd, secondo il quale le larghe intese sono a tempo e poi ognuno dovrà tornare a casa propria.
A ben vedere, così, per Renzi rischia di essere più un problema la linea intrapresa da Paita, la quale ha aperto le porte a settori del Nuovo centrodestra in modo strutturale. Salvo correggere il tiro durante il faccia a faccia a Primocanale, puntualizzando che “io darò il mio contributo, ma le alleanze le decide il partito”. Se non è una frenata, poco ci manca. Del resto, il Pd al 40% che Renzi vuol costruire anche per le prossime politiche non passa attraverso accordi di palazzo che, complici primarie inquinate, devono garantire una poltrona ai Minasso, ai Saso o ai Garibaldi. Passa dai cittadini. Gli elettori veri.
politica
Pd, in pezzi alla meta
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