In piazza i lavoratori di Costa Crociere e in piazza i dipendenti della ex Provincia. A Genova va in scena lo psicodramma di una città in declino. Ma queste due vicende, vicine e lontane allo stesso tempo, in realtà costituiscono altrettante rogne per il Paese intero. Genova ne paga variamente lo scotto, ma mi sottraggo al coro di questi giorni e faccio una constatazione diversa: per una volta, questa volta, le responsabilità non stanno (principalmente) sotto la Lanterna.
Uno degli slogan imperanti è che di fronte al caso-Costa “le istituzioni locali devono intervenire”. Bene. Anzi, male: che cosa significa “devono intervenire”? Mi piacerebbe che uno di questi coristi interrompesse il ritornello magari in rima baciata (“Costa non si sposta”) e dicesse che cosa in concreto il presidente della Regione Liguria Claudio Burlando e il sindaco di Genova Marco Doria potrebbero fare per impedire che circa 150 persone (sperando che altre non debbano seguire) siano trasferite dal capoluogo ligure ad Amburgo. Pur felice se sarò smentito, sono certo che la domanda è destinata a rimanere senza risposta. Perché a Burlando e a Doria si possono muovere tutte le contestazioni che si vogliono, ma per essere credibili occorre anche farlo quando hanno una reale possibilità di intervento. Altrimenti si è superficiali o pretestuosi, il che non giova a nessuna causa si voglia difendere.
Non casualmente il sindaco genovese osserva: “La questione Costa Crociere è una questione nazionale”. Ha ragione, ma ad una condizione: non legare questa affermazione all’idea che il premier Matteo Renzi possa convocare Michael Thamm, l’amministratore delegato della Costa, e persuaderlo o imporgli di non mettere mano all’azienda. Nel qual caso l’errore sarebbe da matita blu. Costa, infatti, appartiene a una multinazionale, il gruppo Carnival, che ha deciso di riorganizzarsi e che legittimamente potrebbe replicare: “In casa mia decido io”.
Ma c’è di più e qui occorre un punto di chiarezza che chissà per quale ragione (o forse si spiega benissimo) si tende a ignorare. La decisione di dimagrire Genova a favore di Amburgo non l’ha presa il signor Thamm, “tedesco di Germania”, perché una bella mattina s’è svegliato con il grillo per la testa di favorire il suo Paese. La scelta arriva da Arnold Donald, amministratore delegato di Carnival, di stanza a Miami, che vuole riorganizzare il gruppo e costituendo Carnival Europe ha deciso che la base sarà Amburgo. Thamm, dunque, è un esecutore di ordini, non l’origine del provvedimento.
Doria, invece, ha ragione quando dice che “la questione è nazionale” se sottende un altro elemento: oggi, di fronte a un’operazione come quella architettata da Carnival, chi potrebbe ragionevolmente scegliere l’Italia anziché la Germania? Perché il punto è esattamente questo: di fronte a tali vicende viene a galla tutta la differenza fra i due sistemi-Paese e Donald ha scelto semplicemente affidandosi al buon senso che ognuno di noi avrebbe messo in campo. Dove sono i collegamenti veloci fra Genova, Milano e il Nord Europa? Dove sono la giustizia che funziona, la pubblica amministrazione snella ed efficiente, un sistema scolastico adeguato (più tutto ciò che occorre, al di là di clima e bellezze naturali, per attirare personale a Genova), la fiscalità certa e adeguata e via elencando tutte le nostre manchevolezze?
Lo stesso Renzi, probabilmente, se telefonasse a Doria gli darebbe ragione. Con una aggiunta, prevedibilmente di questo tenore: lo vedi, caro sindaco, che dobbiamo cambiare verso all’Italia? Esattamente ciò che il premier va ripetendo dal primo giorno, tacciando come gufi tutti coloro che gli mettono il bastone fra le ruote. Renzi, però, dimentica troppo facilmente di essere a volte il gufo di se stesso.
Seguendo il filo rosso che unisce le due odierne proteste genovesi arriviamo a quella dei dipendenti delle ex Province. La riforma del governo non ha riformato un bel niente, non ha cancellato davvero quegli enti e se li ha cancellati ha introdotto – come nel capoluogo ligure – la Città metropolitana, che però ancora non sa su quali risorse potrà contare e quale dovrà essere esattamente il suo mestiere. Il rischio, così, è di lasciare nel limbo servizi che dovrebbero essere essenziali quali “la formazione, il lavoro, la viabilità, l’edilizia scolastica, l’offerta culturale e turistica, la programmazione territoriale, la tutela dell’ambiente”. Cito pari pari da un documento di Rifondazione comunista e prendo anche per buona la battuta sull’autore del provvedimento, il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio: “Più che legge Delrio è legge delirio”. Ci aggiungo un’osservazione: caro Renzi, non bisogna solo dire che le riforme vanno fatte, bisogna farle e farle bene. Altrimenti la toppa è peggio del buco.
E però. Ti aspetteresti che ad andare in piazza fossero le migliaia di cittadini genovesi ai quali quell’elenco di servizi rischia di essere negato. Sarebbe ovvio e pure sacrosanto. In questo strano Paese, invece, in piazza ci vanno i lavoratori della ex Provincia. Ho chiesto a uno di loro, a un sindacalista e a un politico: quanti posti di lavoro si perdono? Risposta di tutti: “Nessuno”. Mi si spiega, però, che viene colpita la “professionalità dei lavoratori, perché ancora non sanno che cosa dovranno fare”. Per carità, uno sciopero ormai è come la botta di “dottore” a Roma, non si nega a nessuno. Ma forse un limite dovrebbe esserci. Che so, almeno di buon gusto, pensando a chi in piazza deve andarci perché il posto proprio lo perde. E sono migliaia e migliaia in Italia e in Liguria.
Gratta gratta, così, vien fuori un altro problema: questi lavoratori lesi nella loro professionalità – sarò sordo, ma contro lo stesso misfatto non ho udito voci in passato di fronte all’arroganza e alla inettitudine di una classe amministratrice locale sempre più scalcagnata – sono anche in gramaglie perché magari toccherà loro di spostarsi a lavorare dal centro di Genova a Sant’Olcese piuttosto che in un più lontano ufficio di un altro ramo della pubblica amministrazione. Oddio, se un disagio si può evitare è sempre meglio. Ma di sicuro stanno peggio i dipendenti della Costa che da Genova dovranno spostarsi ad Amburgo, cambiando Paese, lingua, città e abitudini. E peggio ancora, insisto, stanno coloro che il lavoro lo perdono davvero. E definitivamente. Come tutte le cose della vita, allora, anche la protesta deve avere il requisito minimo della credibilità. Altrimenti questo Paese il verso non lo cambierà mai.
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Costa Crociere ed ex Province, sistema Italia a pezzi
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