cronaca

Ore di angoscia e speranza per la famiglia e gli amici
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Il paese è sotto choc. E oggi, come non mai, le immagini dei turisti felici, dei bagnanti accaldati in cerca dell’ombrellone e del bagno ristoratore nelle acque davanti al Gigante, a Fegina, alle spiagge del lungomare e prospicienti al borgo vecchio, le cartoline in controluce delle Cinque Terre, a destra e a sinistra delle baie di Monterosso al Mare, le istantanee sudate delle file ai chioschi, ai bar, i ristoranti affollati, contrastano con l’angoscia, la paura, lo sconforto e lo stupore avvilito che ha messo ko come un pugile suonato un’intera comunità, una comunità che non si è lasciata schienare neppure dall’alluvione del 25 ottobre 2011.

Eppure questa botta, forse perché nessuno sembrava aspettarsela, fa male e lascia tutti col fiato sospeso, in equilibrio su un filo fatto di attesa e inquietudine. Perché “Gino – dicono i monterossini a bassa voce, ma solo per pudore tutto ligure – è uno di noi”.

Nel borgo vecchio non si parla d’altro. C’è Roberto, il vecchio amico ristoratore, che con Gino, suo coetaneo, ha fatto tutte le scuole, lo conosce e lo frequenta da una vita. Poche sere fa, prima della partenza di Pollicardo per la Tunisia e poi per la Libia, erano a cena insieme. La commozione è difficile da trattenere, ma si impasta con la speranza che tutto finisca bene. Concetto ripreso da Don Antonio, parroco della chiesa di San Giovanni: “Una famiglia normale, bella, felice, lui non lo vedo quasi mai perché a casa c’è poco, portato lontano dal suo lavoro. La moglie lavora in un albergo di Fegina a due passi da casa, frequenta la chiesa e la parrocchia, i figli sono coinvolti nelle attività del paese, hanno suonato nella Monterossina, Gino junior lavora a sua volta in un albergo, fa parte della Pro Loco”. O le parole del sindaco Emanuele Moggia, che sottolinea: “In questo momento si può solo aspettare, rispettando il riserbo e il dolore della famiglia. Gino è un professionista esemplare, che ama il suo lavoro e non ha mai avuto paura. Tornerà presto”.

E allora negli occhi – come a causa di una strana cartina di tornasole – resta solo quel terrazzo vuoto, al secondo piano di una palazzina di via IV Novembre, nel quartiere di Fegina, la parte più nuova di Monterosso, che le spalle robuste del gigante di pietra sembrano voler proteggere dai marosi. Lì, al di là del poggiolo sormontato da una bandiera del paese d’origine della moglie di Gino, il Cile, le serrande a mezz’asta della porta finestra e gli altri infissi socchiusi, vive la famiglia Pollicardo, in attesa che una notizia, una speranza, una telefonata, un refolo di felice normalità in mezzo a queste ore d’incubo, faccia capire che Gino sta bene, che il brutto sogno è finito, che papà è pronto a tornare. Proprio nelle ore in cui un altro papà, Giuseppe, padre del tecnico spezzino rapito in Libia, ha problemi di salute, e nessuno ha avuto il cuore di dirgli che qualcuno si è portato via il suo Gino.

Dentro, nella casa, il sudore del caldo torrido e dell’ansia si mescola con le lacrime di Ema, la moglie di Gino, che si affaccia solo per pochissimi istanti a una finestrella per dire con ferma dolcezza ai giornalisti che stanno giù che lei di parlare non se la sente, e se pure se la sentisse, non può, semplicemente perché non sa nulla di nuovo, e il dolore, l’angoscia, sono troppo difficili da addomesticare, anche e soprattutto davanti a taccuini e microfoni spianati. Assieme a lei i figli Gino junior e Jasmine, protetti da parenti e amici in una fascia di riserbo, aspettano “quella” telefonata dalla Farnesina, sperando che il tempo dell’attesa non sia troppo lungo.

Domani Ema partirà per Roma, dove farà la spola tra gli uffici della Farnesina e l’ambasciata libica, per capire, per saperne di più. Gino junior e Jasmine pensano a quanto sarebbe bello vederli tornare a casa insieme, lei e il suo Gino senior, come nelle favole, o nei brutti sogni, che l’amore, la fede e il coraggio hanno la forza di far finire bene. E presto.