
Qui chiama intorno a sé quella che definisce la “mia famiglia cinematografica”, gli attori con cui condivide per un motivo o per un altro un lungo sodalizio artistico (tra gli altri Roberto Herlitzka, il figlio Pier Giorgio, Alba Rohrwacher e Filippo Timi) per raccontare due storie lontane cinque secoli l’una dall’altra che in realtà non si intersecano tra loro né si susseguono: nel senso che ne comincia una, dopo metà film ne parte un’altra che nel finale lascia di nuovo il posto alla precedente. Unico denominatore comune, la cittadina di Bobbio dove il regista è nato e spesso torna, in val Trebbia, provincia di Piacenza ma molto vicina a Genova.
Nella prima storia, ambientata nel Seicento, che qualche spunto pur lo deve alla monaca di Monza, Federico, giovane uomo d’armi, viene spinto dalla madre a recarsi nella prigione convento di Bobbio dove suor Benedetta è accusata di stregoneria per aver sedotto Fabrizio, fratello gemello di Federico, e averlo indotto a tradire la sua missione sacerdotale. La madre preme affinché Federico riabiliti la memoria del gemello, ma anche lui viene incantato da Benedetta che sarà condannata alla prigione perpetua e murata viva.
La seconda si snoda ai giorni nostri quando al portone dello stesso convento trasformato poi in prigione e apparentemente abbandonato bussa un sedicente ispettore ministeriale accompagnato da un miliardario russo che lo vorrebbe acquistare. In realtà, quel luogo è ancora abitato da un misterioso Conte che occupa abusivamente alcune celle dell’antica prigione e che si aggira in città solo di notte. La presenza dei due forestieri mette in agitazione l’intera comunità di Bobbio che sotto la guida del Conte tenta di vivere, grazie a frodi e sotterfugi, ostacolando in ogni modo la modernità che avanza inesorabilmente. Ma il nuovo è migliore del vecchio?
Il film, non c’è dubbio, dividerà e farà discutere. Quello che disorienta di più non è tanto la costruzione con queste due storie così differenti l’una dall’altra quanto il registro drammaturgico scelto per rappresentarle, totalmente diseguale: una con tutta la drammaticità che impone un processo di tipo inquisitorio, l’altra utilizzando invece toni surreali e grotteschi per sottolineare la corruzione strisciante dell’Italia di oggi. Una scelta che finisce per far perdere consistenza al desiderio di creare un possibile parallelismo tra potere ecclesiastico e potere politico. Se proprio vogliamo fare un complimento al regista possiamo dire che si può considerare come un’opera sperimentale, come tante ne diresse all’inizio della carriera, a cominciare da ‘I pugni in tasca’, anche quello girato a Bobbio. Ma non so se Bellocchio ne sarebbe contento.
IL COMMENTO
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