cronaca

La moglie: "Gioia velata di dolore, dovevano tornare tutti e quattro"
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“Finalmente ho passato una notte civile, decente. Per fortuna è una bella giornata e posso andare a passeggio per il mio paese”. È dura mettersi nei panni di Gino Pollicardo: sette mesi e mezzo di prigionia nelle grinfie di criminali libici, la morte dei colleghi Fausto Piano e Salvatore Failla. E poi la fuga insieme a Filippo Calcagno, il rientro in Italia, a Roma, dove ha riabbracciato buona parte della sua famiglia, e infine l'arrivo a Monterosso, suo paese d'origine, con la sua gente meravigliosa, come l'ha chiamata lui, pronta ad accoglierlo con applausi, striscioni e tanto calore.

“La prima cosa che farò è salutare mia mamma al cimitero, credo che una mano ce l'abbia messa anche lei”, ha detto uscendo dalla palazzina dove abita. Ora è tempo di stare in famiglia, con la moglie Ema e i figli Gino junior e Jasmine. Si cerca di tornare a quella normalità spezzata dalla notizia del rapimento a luglio.

Un'esperienza drammatica durata tanto, troppo tempo, un tempo che diventa difficile anche da contare: "Non avevamo né cellulare né orologio – dice – e contavamo i giorni secondo le preghiere chiamate dai mujaheddin nelle moschee. Il problema è nato quando siamo arrivati al 28 febbraio. Nessuno si ricordava se fosse bisestile".

Intanto si arricchisce di particolari il racconto sulla disavventura in Libia: "Una volta che ci siamo trovati fuori dalla prigione al sicuro, nel commissariato di polizia, abbiamo saputo che le bande offrivano 10 milioni per gli ostaggi italiani", ha detto a un amico. Dopo avergli descritto la fuga con le stesse parole usate dal suo collega Calcagno ha aggiunto che "una volta fuori abbiamo fermato un'auto. È sceso un uomo, gli abbiamo mostrato la benda che avevano usato per tapparci gli occhi e abbiamo ripetuto 'italiani polizia'. Lui ha fatto una telefonata e sono arrivate due macchine piene di gente con i mitra. Abbiamo avuto paura e invece ci hanno portato al posto di polizia, ci hanno rifocillato e affiancato da un interprete. A quel punto ci siamo resi conto che eravamo salvi.

Calcagno, anche lui tornato a Piazza Armerina, nella sua Sicilia, ha raccontato che a salvarli è stato un chiodo: “Piano piano ho indebolito la porta, poi ho chiesto a Gino di aprirla perché mi facevano male le dita. Appena usciti ci siamo camuffati e abbiamo cercato la Polizia, l'unica che potesse aiutarci. E grazie a Dio l'abbiamo trovata”.

Ma il sollievo stride col dolore di chi ha perso qualcuno di importante: le famiglie di Fausto e Salvatore, uccisi proprio il giorno prima della liberazione. Le loro salme torneranno domani in Italia. “Sarebbe stata gioia vera se fossero tornati tutti è quattro, è una gioia velata di tristezza”, dice la moglie di Gino. Difficile dire se ripartirà. “Per ora – assicurano a casa Pollicardo – è qui e si gode la sua famiglia”