La festa nazionale del 1° maggio si celebrerà a Genova, città che con i suoi innumerevoli problemi è diventata il simbolo delle difficoltà di tutto il Paese. Il segretario metropolitano della Cisl, Luca Maestripieri, spiega a Primocanale le ragioni della scelta e i messaggi che dal palco saranno indirizzati al governo.
Perchè Genova?
"Genova evidentemente non è una scelta casuale. Genova è stata individuata da Cgil, Cisl e Uil nazionale proprio per le difficoltà che questa città ha dovuto patire per le crisi industriali, per i tanti problemi occupazionali che ha dovuto affrontare e anche per una certa difficoltà di provare a uscire da una situazione in cui si stenta ancora. Ci sono molte difficoltà anche nella ripresa del dato occupazionale. La giornata del 1° maggio verrà svolta qui anche per questi motivi. Il titolo della manifestazione sarà ‘ più valore al lavoro’ proprio perché il lavoro deve stare al centro di ogni mossa, deve essere il cuore di ogni iniziativa e di piano di rilancio. Però, devo dire, che il tema del lavoro non è poi così di moda in questo paese, non è una priorità, oso dire, di nessun governo, né di quelli nazionali né di quelli locali".
Piazza De Ferrari sarà l’epicentro della manifestazione dove si svolgerà il comizio finale dei tre segretari sindacali. Quali saranno i temi forti?
Sono i titoli che abbiamo dato a questa manifestazione che sarà una festa ma anche un momento di riflessione in cui lanciare messaggi forti alla politica e alla classe dirigente e a tutti quelli che hanno responsabilità ma che molto spesso quando si parla di lavoro non le vogliono cogliere. La politica in questi anni ha abituato i cittadini, i lavoratori, i giovani che sono costretti a emigrare per cercare lavoro a far vedere l’arte di galleggiare depistando su temi di poca importanza, molto marginali e frivoli, e non affrontare i temi veri come quello del lavoro. Per noi il tema del lavoro deve essere rimesso al centro, bisogna affrontare la questione dell’occupazione e poi temi attuali che sono due leve strategiche per noi, su cui noi, come Cgil Cisl e Uil, unitariamente stiamo investendo molto: la previdenza, quindi gli interventi di cui si sta parlando anche questi giorni; e i contratti, quindi la necessità di chiudere i contratti aperti e modificare le regole della contrattazione che vanno riattualizzate rispetto a una situazione di deflazione che stiamo vivendo in questo periodo.
Il giudizio che il sindacato ha dato del jobs act è stato molto articolato. Quando Lei dice "bisogna mettere il lavoro al centro" e poi dice che bisogna parlare di contratti e previdenza. Come i contratti e la previdenza vanno a incidere nel panorama occupazionale?
Il jobs act è stato un brodino riscaldato per quanto riguarda quantomeno la nuova occupazione, quella fresca. È stato utile perché attraverso una revisione delle regole del mercato del lavoro si sono potuti stabilizzare molti lavoratori precari, e questo è sicuramente un fatto positivo. È chiaro che per dare nuove opportunità vere di lavoro occorre attivare delle leve molto diverse: una politica industriale che da molto tempo manca in questo Paese e di cui sentiamo davvero il bisogno. Occorre riattivare anche un sistema di consumi, cioè di capacità di spesa delle persone, e qui ci agganciamo al grande tema dei contratti. Come è possibile dare impulso ai consumi se non si rinnovano i contratti nazionali di lavoro? Dal pubblico al privato c’è una grossa difficoltà proprio a fare questo, in un momento anche di deflazione oltre che di crisi delle imprese. Proprio l’altro giorno in queste strade abbiamo manifestato con le nostre federazioni dei metalmeccanici per il rinnovo del contratto ma ci sono anche nel pubblico situazioni veramente impressionanti. Non è neanche popolare dirlo, ma ai lavoratori del pubblico impiego bisognerebbe fare un monumento: per 7 anni che hanno rinunciato al rinnovo del contratto hanno finanziato in maniera davvero importante le casse dello Stato. E far passare il messaggio del lavoratore in mutande come caricatura non rende nemmeno giustizia a un settore che offre servizi vitali per i cittadini, fatto per la stragrande maggioranza di persone che si alzano preso alla mattina e vanno al lavoro con un forte senso civico.
Il lavoratore in mutande però è stato una realtà…
Sì, è un episodio reale ma come sindacato noi abbiamo fatto delle distinzioni anche sui corporativismi rispetto ad alcune situazione che si sono detereminate per esempio alla Reggia di Caseta, di scioperi fatti in momento poco opportuni o per motivi futili. Noi abbiamo sempre evidenziato situazioni che non andavano bene, ma è giusto riconoscere, dando la dignità che meritano, ai lavoratori del pubblico impiego che nella stragrande maggioranza sono persone per bene che lavorano onestamente. Il tema dei contratti però è un tema più complessivo. Noi chiediamo di ammodernare le regole per la fruizione della contrattazione: i contratti devono essere esigibili. Abbiamo realizzato un documento unitario e Confindustria, dopo l’elezione del nuovo presidente, sarà costretta a confrontarsi con noi proprio per le nuove regole della contrattazione. Dall’altra parte deve saper spingere sulla contrattazione di secondo livello, quella che si fa in azienda o sul territorio, che serve anche per far crescere la produttività e la competitività del nostro sistema economico. È li che si crea quella ricchezza in più che riteniamo debba essere ridistribuita ai lavoratori. C’è poi un probema anche salariale: gli stipendi dei lavoratori italiani sono tra i più bassi d’Europa e noi pensiamo che la contrattazione sia uno strumento formidabile per restituire una vera giustizia sociale.
Ci sono altri due aspetti: il primo riguarda il rapporto tra il sindacato e il governo.
Sì, il Premier molto spesso usa qualche scorciatoia, addirittura attacca il sindacato quando ritiene di essere in crisi di consenso così lui pensa di guadagnare qualche punto. Sulla questione della previdenza, è tornato alla ribalta il tema. Ci sono alcune proposte ma io penso che il governo dovrebbe convocare le parti sociali, sedersi a un tavolo e ricominciare a parlare di staffetta generazionale. Far uscire 67enni nel mondo del lavoro anche per aumentare la produttività dell’impresa. Bisogna restituire la possibilità di andare in pensione dopo i 62 anni o con una combinazione fra età anagrafica e anzianità di servizio. E poi biognerebbe anche restituire un po’ di potere d’acquisto a quelli che sono attualmente in pensione, verso i quali quando si parla di rivalutazione si pensa sia un privilegio. Sarebbe invece una cosa equa: si spenderebbe qualcosa di più riavviando, magari, anche qualche posto di lavoro.
Il secondo punto è l’annosa questione del rapporto tra lavoro e sostenibilità ambientale. Come si può far coincidre occupazione e sostenibilità ambientale?
Bisogna fare tutti gli sforzi per non metterli in contrapposizione. Il lavoro deve essere l’elemento unificante tra sviluppo e crescita di un territorio come il nostro e sicurezza ambientale. Noi sul caso Iplom abbiamo chiesto di avviare un tavolo con Governo Nazionale, Regione e Sindaco proprio per mettere al centro il lavoro che non può essere contrapposto all’ambiente. Ci sono dei lavoratori alla Iplom, 500 se teniamo conto anche dell’indotto: dobbiamo pensare anche a loro e a non mortificare il lavoro. Ilva invece ha perso occupazione dal 2005, speriamo che nelle prossime settimane ci possano essere delle notizie positive. Certamente dobbiamo sforzarci tutti insieme a non contrapporre le questioni del lavoro a quelle sulla tutela ambientale. Molto spesso sono i cittadini ad essere danneggiati e hanno tutto il nostro appoggio perché poi i cittadini sono i lavoratori. Prima di ‘sfornare’ giudizi sommari bisognerebbe avere grande senso di responsabilità e capire ance bene le cose.
cronaca
1° maggio, la festa a Genova cercando una via d’uscita dalla crisi
Il segretario della Cisl Maestripieri a Primocanale
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