Per il porto di Genova, ombelico della nostra storia e quasi unica prospettiva del nostro futuro, questa è una svolta “storica”. Il varo della nuova legge che diventerà tale quando la Gazzetta Ufficiale pubblicherà il fatidico decreto (dieci-quindici giorni), ha il peso delle grandi svolte che nel Novecento hanno cambiato la rotta delle nostre banchine. Assomiglia al tempo del 1903, quando venne fondato il Consorzio Autonomo del Porto e per la prima volta si incominciò a riconoscere il ruolo nazionale delle banchine genovesi, ne vennero definiti i confini e i rapporti con gli scaricatori, i “camalli” delle Compagnie secolari.
Venendo più vicino ai nostri tempi, questa rivoluzione richiama quella meno giuridica, ma economicamente basilare, introdotta da Roberto D'Alessandro, il manager che Craxi nel 1984 nominò al vertice del Cap. Quel presidente “tramutò” la struttura del Consorzio con i suoi “libri blù” e con le società che governavano i pezzi di porto e introdusse il concetto di costo industriale nelle operazioni portuali, capovolgendo copernicanamente il sistema monopolistico e minando le fondamenta del binomio, il sistema Cap-Culmv, che faceva ruotare tutto intorno a quell'asse.
Poi si arrivò alla privatizzazione, inizio anni Novanta, firmata da un personaggio leggendario come il socialista Rinaldo Magnani presidente del Cap, ex console dei Carenanti ed ex presidente della Regione, preceduta, quella privatizzazione, dai famosi decreti Prandini, il tanto discusso ministro democristiano dei Trasporti che sfidò, dopo D'Alessandro, il monopolio dei camalli nelle operazioni di scarico e infranse non solo quello, ma una mentalità che non concerneva solo il mitico potere del console Paride Batini e dei suoi portuali, ma l'intero “mood” genovese intorno ai moli. La legge 94-84, quella che oggi, dopo tanta fatica, si riforma e che aveva ristrutturato il Cap, trasformandolo in Autorità Portuale, non è stato un passaggio tanto pesante storicamente quanto quelli appena ricordati.
Oggi il ridisegno italiano del sistema portuale, la riduzione a 15 distretti dalle 29 Autorità, dei quali il nostro è il più importante, contiene una grande scommessa e diversi rischi. La scommessa dell'agilità, della razionalizzazione, della concentrazione, del centralismo ministeriale in una materia fino a ieri praticamente sconosciuta a Roma, salvo il potere esercitato da qualche satrapo ministeriale nel corso dei decenni, è “ alta”, una vera sfida. Ma contiene il rischio di tutte le centralizzazioni, accentuato dalle speranze disilluse di un federalismo portuale, di un'autonomia finanziaria e gestionale che noi, primogeniti, abbiamo sempre invocato, che ci ha illuso e che ora “mutuiamo” in ben altro.
E' veramente convinto il governo di questo Paese di saper impostare una politica industriale-portuale, venendo dalle macerie di una gestione nella quale non si ricorda un ministro veramente competente, ( e quanti ne ricordiamo nei momenti “topici” dall'ineffabile Gianuario Carta, a Lupis, a Bianchi....) nella quale si è perfino cancellato lo stesso ministero della Marina, delegando a altri dicasteri, annegando in altre competenze, fino alle odierne Infrastrutture? Noi genovesi, primogeniti da sempre, abbiamo i nostri dubbi.
Questa rivoluzione contiene, in quella semplificazione e concentrazione, anche passaggi fondamentali come la disciplina delle concessioni ai privati e l'eliminazione dei Comitati portuali. Detta regole di trasparenza e di mercato in una materia delicatissima, come quella della spartizione dei moli e delle banchine, spazza via quei consessi, spesso diventati sinedrii e accolite per compromessi e operazioni “a umma a umma”, che hanno dettato legge nella carne viva dei traffici, ammantandosi dei “nobili” principi della rappresentanza istituzionale ed economica del territorio.
Onore a chi si è battuto anche ferocemente perché le concessioni venissero disciplinate e i comitati ridimensionati a semplice board, come il senatore Maurizio Rossi, uno dei pochissimi parlamentari di questa terra, che pure ha nei porti il “sale” della sua storia e del suo sviluppo, a giocare fino in fondo una partita decisiva, rischiando non poco del suo. Dove sono oggi gli altri deputati, gli altri senatori?
La nuova legge, che ora è scolpita nelle tavole sacre, sconfigge chi preferiva regolare le concessioni nei rapporti politico-personali-istituzionali, portando sicuramente traffici, business e vantaggi al porto (oltre che giustamente alle proprie aziende), ma chiudendolo in uno schema che ha tenuto fuori fino ad oggi i grandi liners, che ha preferito “il mio scagno” a quelli dei grandi terminalisti internazionali, tra l'altro possibili investitori in grandi operazioni sempre più necessarie, la nuova grande diga, un sistema infrastrutturale non arretrato di decenni, un “fuori muro” finalmente costruito, i nodi infrastrutturali, i varchi aperti e non quel contagocce di collegamenti con il resto dell'Italia e con il bacino padano e Nord Europeo che ci meritiamo.
La legge passa in un caliente finale di luglio, ci regalerà la fine del Comitato portuale (l'ultimo, quello del “de profundis”, si riunisce mercoledì), un commissario entro quindici giorni, magari un commissario-presidente e uno scenario completamente nuovo. Intorno la città, che dovrebbe celebrare o per lo meno sintonizzarsi, corre il rischio di concentrarsi solo nell'attesa della figura che andrà a sedersi sulla poltrona del nuovo presidente-comandante di una area più vasta, fino alle banchine in ebollizione di Savona, dimenticandosi un po' del resto. E' un peccato ed anche una sottovalutazione.
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