Genova sembra spesso racchiusa in un tempo indeterminato e lontano, una sorta di età dell’oro a cui contrappone il declino del presente. E’ una diffusa nostalgia del passato anche se di questo passato si è largamente persa la memoria. Ma è soprattutto la fuga dal futuro, dall’assunzione di una responsabilità civile, dal costruire una visione condivisa della città in cui contraddizioni, fragilità e opportunità siano assunte come il dato di realtà con cui misurarsi.
Invece predominano le retoriche, i sogni come le deprecazioni, in un unico straordinario calderone in cui scompaiono le priorità, le strategie realistiche, le scelte da fare. E in questo calderone si rispecchia la povertà della politica ma anche la crisi delle classi dirigenti e il conformismo mediatico. Siamo davanti a una sorta di punto zero in cui le rendite di posizione, gli intrecci di micro e macro poteri, la routine burocratica mostrano la corda e un profondo logoramento. Invece abbiamo bisogno di discontinuità.
Una discontinuità non politica ma sociale. Cioè più profonda, capace di mobilitare energie, risorse, saperi. Non solo e non tanto generazionale, ma di competenze, di capacità di mettersi in gioco, di produrre innovazione. Abbiamo bisogno di allontanare i fantasmi e far circolare sangue in una città che appare sempre più anemica. Di sapere che sono saltati i sistemi classici di rappresentanza sociale, che l’idea stessa di cittadinanza è stata svuotata, che abbiamo bisogno di una nuova democrazia civica fondata, appunto, sulla responsabilità, sul saper fare, su un nuovo disegno comune.
Non c’è più l’antica città industriale, la popolazione è largamente invecchiata, scuola e università disegnano nuove diseguaglianze sociali più che opportunità e valorizzazione del merito, aumentano le povertà materiali e le solitudini. Al tempo stesso Genova è stata, sia pure con fatica, capace di ridisegnarsi, di individuare un nuovo modello di sviluppo e di crescita che, anche qui con fatica, regge a fronte della crisi infinita e dei processi di globalizzazione. Ma in questa trasformazione la città non ha ricostruito una sua società civile, il sentimento di incertezza sembra predominare e alimenta quello scoramento a cui siamo geneticamente consegnati.
Non sarà la politica a mutare le cose se non ci sarà un passo in avanti di coloro che in questa città lavorano e danno lavoro, producono cultura e solidarietà. E’ in una nuova dimensione del bene comune che possiamo mettere in moto un processo positivo e collettivo, superare la frammentazione, le paure, la percezione di impotenza.
E’ inutile appellarsi alla politica, sottolinearne i tanti limiti e inadeguatezze, se non si apre una nuova stagione di impegno civile, di coinvolgimento individuale, se non c’è una discesa in campo non di un uomo o di una donna salvifici ma di coloro che concretamente e quotidianamente fanno vivere questa città.
L’isolamento logistico di Genova è la metafora di una città isolata anche al suo interno. Ma per romperlo bisogna decidere di cambiare. Cambiare culture e sguardo. E se non adesso quando?
*presidente Fondazione Palazzo Ducale
politica
Il dramma di Genova? Isolata al suo interno
E’ inutile appellarsi alla politica
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