Colpi di fucile e di pistola. Passi veloci di stivali sull’acciottolato, su per la salita, nella piazza. Grida. Motori su di giri, stridore di gomme che filano via, veloci. Scappano.
E’ quello che avrei sentito negli ultimi due giorni se, settantaquattro anni fa, fossi stato seduto dove sono adesso.
Nelle delegazioni, in Valpolcevera, le brigate partigiane hanno ripreso il controllo delle strade e delle piazze: il generale Gunther Meinhold, comandante della piazzaforte di Genova, ha trattato la resa.
I partigiani tutt’intorno avevano bloccato le vie di fuga, i tedeschi erano spacciati. Dal suo bunker di Berlino Adolf Hitler, devastato dalla malattia e ormai completamente pazzo, aveva comandato il bombardamento della città: “Non faccia eseguire l’ordine”, aveva chiesto con voce ferma il vecchio Arcivescovo Pietro Boetto, guardando Meinhold negli occhi. I due erano seduti, assieme ai capi partigiani e al console tedesco Von Hertzdorf, in una sala di Villa Migone. Con loro anche il giovane colonnello Oswald Pohl, un nazista invasato che per un curioso senso dell’onore si sarebbe tolto la vita poche ore dopo.
Meinhold era rimasto a lungo a riflettere, i suoi uomini erano in trappola: se la Luftwaffe avesse fatto fuoco sarebbero morte migliaia di persone, compresi i soldati del reich.
Alle 19.30, l’ora in cui oggi scostiamo l’oliva dal Martini, il comandante tedesco ha firmata la resa. Seimila uomini della Wemacht lasciano la città disarmati, è finita.
Genova si è liberata da sola, ha alzato la testa, ha saldato il suo conto.
Un fatto storico di grandissima importanza che, assieme al complessivo impegno partigiano nella lotta contro gli invasori, all’insurrezione di Milano e quella delle altre grandi città del nord, ha avuto un peso decisivo nella storia nazionale successiva alla Seconda Guerra Mondiale: se Alcide de Gasperi alla conferenza di pace di Parigi poté parlare guardando negli occhi gli ex nemici, è perché il mondo intero riconobbe la voglia di riscatto, di democrazia e di libertà mostrata da un gran numero di italiani. Una voglia nata proprio qui, sotto casa mia.
Eppure, settantaquattro anni dopo, il dibattito destra-sinistra sui valori della resistenza e del 25 aprile è ancora ampio: si ritiene che la memoria di quei fatti non sia condivisa e così, ogni 25 aprile da allora, ai partigiani che sfilano in un commosso ricordo si contrappongono gruppi più o meno numerosi di indifferenti e persino di contestatori.
Ci sono ragioni storiche e sociali molto solide che spiegano questo fenomeno al punto che ormai, probabilmente per il bene di tutti, sarebbe il caso di non dibatterne più. E sarebbe forse utile, anche per quello stesso amor di patria che certamente pervadeva i nostri nonni, iniziare a fare seriamente i conti con la nostra storia.
Che non significa, si badi, revisionarla, riscriverla o modificarne il senso: ma, piuttosto, cristallizzarla, osservandola in prospettiva e definendone i contorni.
Il 25 aprile va storicizzato: i testimoni oculari di quei fatti tragici ed eroici al contempo hanno quasi tutti completato il loro passaggio sulla terra e noi, che quegli eventi li possiamo osservare plasmandoli coi nostri occhi distratti, dovremmo avere finalmente il buon gusto di non strumentalizzarli più a nostro vantaggio, di non utilizzarli per interpretare il presente. E, soprattutto, dovremmo avere più rispetto per le categorie della storia, senza affibbiare patenti o stimmate con superficialità e ignoranza.
Il 25 aprile non è la data di nascita dell’Italia, che era liberale e democratica ben prima dell’avvento del Fascismo: una nazione in cui già convivevano tutte le componenti politiche e ideologiche che avrebbero caratterizzato il ‘secolo breve’, dal centro cattolico cristiano, al socialismo (riformista o rivoluzionario), fino al comunismo.
Il 25 aprile è però il momento del riscatto di un popolo contro la barbarie, è la scintilla da cui prenderanno le mosse molte delle novità istituzionali dell’Italia, dalla costituzione rigida (per evitare manipolazioni tiranniche) al parlamentarismo alla partitocrazia.
E’ una rinascita, un “secondo Risorgimento” come lo ha definito ieri il presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
Ma è lontano, molto lontano nel tempo: da allora è successo di tutto, la politica, la società, l’economia sono tutte profondamente cambiate e la contrapposizione ‘buoni-cattivi’ del 1945 oggi non vale più niente.
L’altra sera a Milano, in piazzale Loreto, ventitré (!) tifosi della Lazio, il cui grado di istruzione possiamo solo immaginare, hanno esposto uno striscione inneggiante Mussolini: erano ventitré e, credetemi, non contano nulla. Non hanno potere, non hanno seguito, non hanno niente. Se pensate che siano loro il fascismo che avanza sappiate che nel 1972 il Movimento Sociale Italiano (che direttamente si richiamava alla Repubblica di Salò) era il quarto partito italiano con 56 deputati e quasi il 9% dei voti.
Non si può definire fascista ogni idea che non ci piace e sarebbe forse il caso di ricordare che quando nel marzo del 1919 (cent’anni fa, tondi tondi) Benito Mussolini fondava a Milano i Fasci Italiani di Combattimento nessuno intravvedeva in quel gruppuscolo i prodromi dell’olio di ricino, delle leggi razziali e della catastrofe della guerra.
L’italia giolittiana aveva paura degli anarchici che ammazzavano i potenti, poi dei “rossi”. Dei fascisti no, anzi, sembravano l’argine al degrado.
La storia, miei cari lettori, è bellissima e ricca di spunti, chi la conosce è più intelligente e pronto alla vita di chi la ignora, ma non prevede il futuro.
La storia ci dice che presto o tardi verrà un’ideologia malata, che la gente la seguirà, che ci sarà una guerra, una crisi, una catastrofe ma, purtroppo per noi, non ci dice chi ne sarà responsabile. La storia non ci avvisa.
Festeggiamo tutti il 25 aprile, chiniamo il capo davanti a quegli uomini coraggiosi che combatterono per darci la possibilità di vivere in un paese libero e democratico. Mostriamo loro il nostro rispetto, tributiamogli il nostro Grazie. Ma non andiamo oltre. Nessuno deve impossessarsi del loro ricordo, nessuno deve usarli come strumento di lotta politica. Non è il 25 aprile a essere divisivo. E’ l’uso che se ne fa.
cronaca
Se il 25 aprile l'Italia si riscopre divisa è giusto chiedersi perché
A 74 anni dalla Liberazione il Paese fatica a condividere la memoria
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