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Il leggendario presidente dei Sette Trofei, scomparso a 63 anni nel 1993, era nato il 9 aprile del 1930
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Non arrivò ai primi di dicembre quel luna park, non s'insediò alla Foce. Lo allestì in primavera, tra Marassi e Bogliasco, un signore che oggi avrebbe compiuto novant'anni e che si giocò il cielo a dadi per fabbricare impensati sorrisi, per far fiorire un'idea di felicità in un giardino di cemento.
Il suo era un nome che circolava, come il fumo nella bottiglia tra i reclusi, ai tempi grami e felici tra Heriberto e il primo Bersellini. Dicono lo avesse convinto don Berto, anzi Mugnaini, chissà. Poi venne davvero, Paolo Mantovani: ad aprire le montagne russe e la galleria degli specchi e il castello incantato, un incantesimo durato quattordici anni. Da ventisette quasi invece è una lancinante nostalgia, quasi il doppio del tempo trascorso da comandante. E quanto ci manca la sua assenza.

Cade in un aprile crudele, questo compleanno di un rimpianto, da poco e troppo presto raggiunto dal suo Filippo. È un calendario sbiadito, come le foto e le riprese di quella stagione, ancor oggi difficile da credere esistita davvero.
Se ne parla, chi ne parla, come di un film visto e anche vissuto, una rivoluzione allegra in città, il tuo nome di battaglia era Pinin e io ero Sandokan. Si saliva e si scendeva dallo schermo, come nella Rosa Purpurea del Cairo, indecisi tra l'una e l'altra realtà.
Non vale l'elenco dei trofei, la polvere non li ottunde, risuonano nella memoria di chi l'ha visti e di chi non c'era e di chi quei giorni lì inseguiva una sua chimera. Una notte nella Cremona di suo padre e di un ragazzo lasciato tre primavere dopo all'ultimo rintocco del Big Ben; una notte nella terra delle notti bianche, in un bellissimo stadio sbilenco; due pomeriggi a Milano, a dieci anni di distanza: di tutto resta un poco e quel poco è tutto. Alcuni lo ricordano ancora mentre si accende una sigaretta; altri gli hanno fatto un monumento, per dimenticare un po' più in fretta.

I ragazzi saliti sulle sue giostre hanno oggi l'età che aveva lui, quando Scanziani aveva sollevato al cielo la prima coppa, davanti al secondo Bersellini, e «il quinto colore si era aggiunto sulla maglia», disse. Se ne sono andati quasi tutti i loro padri, che li avevano portati bambini a conoscere la Sud, senza curarsi della vita grama che credevano di infligger loro. Quell'uomo non era previsto, era stato un incidente della storia, un premio a chissà quale merito. Ricordarlo è inutile, dimenticarlo è impossibile: hanno ammazzato Paolo, Paolo è vivo.

Il suo primo capitano ha vinto un Mondiale da allenatore. Il suo ultimo capitano ci proverà. Da Chiorri a Gullit quante cose i suoi occhi hanno visto, quante ne vedranno quando lo avrà giudicato Cristo.
Vola fragile come fumo di sigaretta il suo ricordo, a occhi chiusi per una ninna nanna, dolce come quell'inatteso Natale alla fine di maggio: “e se vai via di casa accendi, al momento / del commiato, le quattro candele di una stella / perché illumini un mondo vuoto di realtà, / mentre ti segue con lo sguardo per l'eternità”.