Scivoliamo Sottoripa, sotto la riva. Costeggiamo i piloni della Sopraelevata. Ecco la Commenda di Pré. Jacopo Guastamacchia con la sua super-telecamera inquadra.
L’altro ieri ho intervistato per Primocanale un grande romanziere contemporaneo, Andrea De Carlo, autore di un bellissimo e ironico “Teatro dei sogni” dove immaginari leghisti e grillisti, sindaci e assessori di cittadine nordiche, si contendono l’eccezionale ritrovamento di un solitario archeologo fuori dagli schemi dell’attualità. De Carlo. Figlio di Giancarlo De Carlo,uno dei sei grandi architetti (Piano, Fera, Gardella, Grossi Bianchi, i Belgiojoso) che negli anni ’80 furono chiamati dal sindaco socialista Fulvio Cerofolini e dall’assessore Mario Bessone a recuperare il centro storico abbandonato e speculato. A ognuno fu assegnato un pezzetto. Giancarlo De Carlo, elegante e silenzioso, ebbe proprio Pré. Forse la porzione più delicata e controversa di Genova. Pré allora regno incontrastato dei contrabbandieri di sigarette e delle prostitute, Pré di Fabrizio, Prédei marinai che andavano allo Zanzibar o al Mocambo. Quella che ora Giuseppe Marcenaro nel suo “Passaporti” sintetizza così: “Oggi è un suq funebre. E’ stata una strada viva, una suburra da marinai. Le botteghe assomigliano a occhiaie vuote. “ .
La Commenda è fatta da due chiese romaniche, sovrapposte l'una all'altra, che costituiscono il grosso del corpo architettonico, e di un edificio a tre piani, la commenda appunto, cioé il convento e l'ospitale nei locali al piano terra. Funzionava come stazione marittima sulle rotte della Terrasanta e ospedale (l’ospitaletto), inizialmente a uso dei pellegrini e in seguito per i malati e gli indigenti della città. Oggi anche per i tamponi rapidi ai sospetti colpiti dalla pandemia. Genova non si è fatta mancare niente: é stata addirittura sede papale. Ospitò due pontefici. Uno era un papa, Urbano VI, che fuggiva da un antipapa e si portava come prigionieri- ostaggi al seguito niente di meno che sei cardinali accusati di averlo tradito. Chi lo aiuta mettendo a disposizione la sua flotta? Due genovesi con dieci galee.
Sicuramente avevano la loro convenienza: sessantamila fiorini d’oro per salvare il pontifex. Quando Urbano VI, dopo quindici mesi di auto-isolamento nel magnifico palazzo, andrà via da Genova, ordinerà di uccidere i cardinali, sgozzandoli o buttandoli in mare. Chi porta a termine a termine l’operazione? Non si sa. Forse i soldati del doge Antoniotto Adorno o i papalini? O i servizi segreti di allora come oggi, che te li trovi da tutte le parti e non sai mai che cosa ci stanno a fare. Pronti a concludere in modo spiccio e pasticcio le operazioni sporche che nessun altro vuole fare.
I vicoli hanno nomi bellissimi e facili da identificare non come le ultime strade così banalmente anonime. Piazza delle Erbe, vico dei Bottai, del Fieno o del Fico, del Filo o del Pelo. Ma anche del Tempo Buono e dell'Amor Perfetto. Del Rosario e della Vena, Vico della Lepre e della Pece. Vico della Scienza o della Speranza, delle Camelie e della Giuggiola, (un angolo di paradiso sopra la chiesa del Carmine) vico Palla e vico Sottile, ma così Sottile che quasi non ci si cammina tanto è stretto.
Le prostitute controllano le loro strade e gli angoli e quando, anni fa, qualcuno le voleva togliere dalla strada c'è stata una generale sollevazione del quartiere. La sicurezza della città borghese si è persa con la strage delle portinaie, le belle vecchiette a volte un po’ troppo curiose che stavano chiuse nei loro gabbiotti vicini alle scale e guardavano e controllavano il mondo mentre la minestra di olezzante cavolo sobbolliva nella cucina nascosta da una semplice tendina.
Arriviamo alla basilica della Nunziata. La grande meraviglia è il gigantesco quadro di Giulio Cesare Procaccini, questa Ultima cena che è un vero colpo di teatro. Il più grande dipinto della Liguria. Poi usciamo dalla porta vicina al mio liceo classico, il Colombo di Sbarbaro e De André, del Nobel Giulio Natta e di Lele Luzzati, di Giorgio Labò e di Edoardo Benvenuto. E di noi, ignoranti, che spegnevamo le prime sigarette clandestine sulla statua pensosa di Colombo in mezzo al cortile. Ma quando lo frequentavo non avevo mai visto Enea. Il professor Rossi, di Storia dell’arte e il professor Longo magnifici insegnanti, non ce lo avevano detto. Probabilmente non meritavamo di scoprirlo allora.
Nella piazza Bandiera ingombra di macchine c’è quello che Giorgio Caproni indica come il più bel monumento al mondo dedicato a Enea. Quel barchile che dopo infinite peregrinazioni rappresenta l’umanità di un guerriero che porta via da Troia in fiamme il figlio per mano e il vecchio padre, in spalla. La fontana, prima di trovare sede definitiva nella piazza nel 1873, subì vari traslochi: da Piazza Soziglia a Piazza Lavagna, e da questa in Piazza Fossatello. “Il raccoglitore ligure” del maggio 1932 affermava scherzosamente che: “Enea non vagabondò tanto da vivo, quanto i genovesi lo fecero vagabondare da morto!”.
Vi lascio con le parole del poeta:
“Io ho girato molte città d’Italia, ma Enea non l’ho conosciuto altrove. Perlomeno non ho incontrato l’unico Enea veramente vivo nella sua solitudine e nella sua umanità. L’unico Enea, insomma, che meritava davvero un monumento in mezzo a una piazza, simbolo unico di tutta l’umanità moderna, in questo tempo in cui l’uomo è veramente solo sopra la terra con sulle spalle il peso d’una tradizione ch’egli tenta di sostenere mentre questa non lo sostiene più, e con per mano una speranza ancora troppo piccola e vacillante per potercisi appoggiare e che tuttavia egli deve portare a salvamento”. (Il passaggio d’Enea , Vallecchi 1956).
(5-continua)
IL COMMENTO
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