André ha avuto un ictus. In parte l’ha superato ma rimane non autosufficiente e dunque sminuito, nella sua sofferenza e nella sua dipendenza. Lui, collezionista d’arte bisessuale normalmente eccentrico, non accetta di ridurre il proprio stile di vita e allora chiede alle due figlie qualcosa che in Francia (e non solo in Francia) è proibito: andarsene con dignità.
Dopo una partenza al rallentatore, sia per il livello non eccelso di ‘Annette’ sia per i tanti problemi organizzativi e pratici che stanno penalizzando gli addetti ai lavori (primo fra tutti il sito che dobbiamo usare per prenotare i biglietti che è sempre in tilt) il concorso si mette in carreggiata con 'Tout s’est bien passé', una frase – “Tutto è finito bene” – che normalmente si associa a qualcosa di positivo ma non nel film di Francois Ozon che il regista francese ha tratto da un libro di Emmanuèle Bernheim, sua storica collaboratrice scomparsa quattro anni fa.
Il protagonista la cui vitalità continua a manifestarsi anche attraverso l’angoscia che lo divora dentro (bella interpretazione di André Dussolier) è davvero un personaggio curioso: egoista per molti versi ma anche intransigente, soprattutto con se stesso, è entrato senza scusarsi nelle convenzioni borghesi del matrimonio e della famiglia pur continuando a vivere apertamente come un gay. Sarà la figlia cui è più legato nonostante le tante incomprensioni (Sophie Marceau) a doversi fare carico di quasi tutto. Il merito principale del film di un regista che il tema della morte l’ha affrontato più volte sta nell’interessarsi più delle dinamiche personali e familiari che della grande questione etica che solleva, perdendo in commozione ma guadagnando in spessore. Senza rinunciare all’ironia, come quando l’uomo chiede alla figlia “Ma come fanno i poveri?” dopo che lei gli ha rivelato il costo esorbitante del suicidio assistito in una clinica svizzera.
Colpisce invece totalmente nel segno ‘The velvet underground’ che Todd Haines (l’autore di ‘Velvet goldmine’ e ‘Carol’, qui al suo primo documentario) ha dedicato al mitico gruppo di Lou Reed e John Cale, la band emersa in America alla fine degli anni ’60 come parte di un'avventura artistica riccamente interdisciplinare. In realtà, non tanto e non solo un gruppo rock ma più uno stile di vita. Con loro anche Andy Warhol che li ha creati o ricreati virtualmente come band house della sua Factory.
Haynes presenta ‘The velvet undergrond’ in uno schermo diviso più o meno continuamente, giustapponendo un collage di immagini e di oggetti trovati tematicamente rilevanti, materiale d'archivio sulla band e interviste. La scelta vincente è di raccontare la parabola di un gruppo tra i più innovativi di sempre (cosa suonavano? Pop? Rock ‘n roll? Proto-punk? Avanguardia?) immergendola nel terreno culturale da cui emerse. Un documentario strutturato in maniera elettrizzante che sembra quasi provenire dalla stessa esplosione artistica che celebra.
cultura
Lou Reed ed Eutanasia, Cannes alza il tiro
Presentati i film di Francois Ozon e Todd Haynes
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