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Capace di costruire con i giocattoli un impero, ma di snobbare ogni establishment industriale
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Non scrivo da tifoso, né da tecnico di calcio, cosa sono stati questi 18 anni di Enrico Preziosi al Genoa e, quindi, nel cuore della città rossoblù. I tifosi pesano ora quel periodo, dividendosi tra chi pensa di essere uscito da un incubo e chi, invece, mugugna il suo maniman, sospettando il nuovo padrone americano di lontananza astratta e finanziaria e magari rimpiangendo i 15 anni consecutivi di serie A e la passerella dei giocatori indimenticabili, a incominciare da Diego Milito.

Scrivo da vecchio cronista della città, rispetto alla quale l’era Preziosi è un periodo che non lascia che deboli segni. Con l’arcivescovo, il sindaco, il presidente della Regione il ruolo del presidente del Genoa ( e per carità anche della Samp) è uno dei più visibili. Basta pensare a chi erano Fossati, Spinelli per la città al di là dei loro business di mattoni e di trasporti…

Certo, Preziosi era uno straniero, imprenditore self made man, figlio di un orologiaio di Avellino, costruitosi da solo grazie a un genio degli affari indiscutibile, ma che rapporto ha avuto poi con la città? Arrivava come un fulmine a Pegli sul campo di allenamento e poi allo stadio, finché ha potuto farlo, e se ne andava. Con me una volta si è vantato di non avere fatto neppure una doccia a Genova.

In realtà Preziosi era un lupo solitario, capace di costruire con i giocattoli un impero, ma di snobbare ogni establishment industriale, figurarsi quello molto english di Genova. All’inizio della sua presidenza Stefano Zara, allora leader degli imprenditori genovesi, subito dopo Riccardo Garrone, lo invitò a una riunione per fargli conoscere “i suoi colleghi”. Fu un disastro. Incomunicabilità totale e nessun seguito, neppure con i più sfegatati tifosi rossublù tra gli imprenditori.

Eppure un business man del suo calibro avrebbe potuto interagire con Genova, città di grandi traffici. Lui si vantava di far sbarcare in porto container pieni di Gormiti, il suo giocattolo boom di qualche epoca fa, ma la cosa finiva lì. Solo un altro lupo solitario, ma molto genovese, come Giovanni Alberto Berneschi, allora padre padrone di Carige, aveva un po’ flirtato con Preziosi in una serie di piccole operazioni immobiliari, ma poi era finita, e neppure benissimo, tra la banca-mamma di Genova e il patron rossoblù.

A Genova Preziosi preferiva rapidi pranzi pre partita, magari un po’ scaramantici per la scelta dei commensali, al ristorante “Ippogrifo” o il desco con i suoi collaboratori, nei dintorni di Pegli, ma pubbliche relazioni con altri personaggi della città, giornalisti compresi, neppure a parlarne.

"Preferisco mangiare con il mio autista" - mi aveva confidato una volta davanti alla domanda sui suoi rapporti con la cosiddetta “città che conta”. Con Riccardo Garrone, che era il suo interfaccia nel calcio cittadino sulla sponda sampdoriana, c’era grande correttezza e rispetto, ma confidenza zero. Ha sbagliato lui a “sorvolare” sempre Genova, le sue istituzioni, i suoi leader o è stata Genova, città non certo aperta, a non offrirgli una accoglienza diversa da quella riservata al padrone straniero di un monumento sportivo come il Cricket? Chissà… eppure le occasioni, in questi 18 anni, si potevano trovare eccome.

Resto dell’idea che l’uomo avesse il suo carattere, che Genova per lui fosse solo il Pio e Marassi, fino a quando poteva andarci, sedendosi proprio come un lupo solitario in Tribuna. Ora arrivano gli americani, più anonimi, diversificati negli interessi, chissà chi sarà il presidente e magari il consulente Preziosi si sgelerà e scoprirà finalmente la Lanterna...