Giustizia è fatta. In nome del popolo italiano il tribunale di Genova ha stabilito che così come per la caserma di Bolzaneto anche alla Diaz, in fondo, è successo poco o niente. Un pugno di anni di carcere sono stati considerati più che sufficienti per risarcire quei volti coperti di sangue, quei corpi massacrati, quei giovani fatti uscire in barella o a mani alzate, immagini che hanno fatto in tv il giro del mondo suscitando sdegno e indignazione pressoché dovunque ma molto meno da noi, che pure siamo la patria del diritto. E soprattutto, nessun disegno organico superiore, solo la repressione creativa, chiamiamola così, di un gruppo ristretto di buontemponi, pochi intimi che poi, buon peso, hanno deciso con un colpo di genio di portare dentro alla scuola un paio di molotov, giusto per far capire meglio anche agli sprovveduti da che parte stavano i veri cattivi. E dietro l’angolo la prescrizione, dopo di che, su tutta questa faccenda –in un paese come il nostro storicamente e tragicamente senza memoria- scenderà il buio, argomento fastidioso e molesto cavalcato soltanto da qualche regista o qualche scrittore, ovviamente di sinistra, cioè di parte, e dunque non credibile.
Un film o un libro, chissà. Magari una canzone anche se in questo caso si arriverebbe inesorabilmente secondi. Perché tutto era già stato scritto, tutto già cantato. Da Fabrizio De André, che nel 1973 pubblicò ‘Storia di un impiegato’, un ‘concept album’ che guardando al passato profetizzava il futuro, la storia di un borghese che prende coscienza di fronte alla protesta studentesca del maggio francese. Perché se è vero che ci sono singoli personaggi letterari –si pensi a Edipo, Lear, Macbeth, Achab, Raskolnikov ma molti altri ancora- che sono paradigmatici della condizione umana, capaci di farci comprendere il nostro ruolo in questo mondo, altrettanto lo sono determinati momenti storici, soprattutto quando si lotta contro il potere, qualunque esso sia, dal momento che (ed è la prima citazione dal disco) “certo bisogna farne di strada/per diventare così coglioni/da non riuscire più a capire/che non ci sono poteri buoni”.
“Cuccioli del maggio”, chiamava Fabrizio gli studenti in protesta. Ma non erano anche ‘cuccioli’, in un certo senso, moltissime di quelle decine e decine di migliaia di persone che presero parte alle manifestazioni del luglio 2001, indipendentemente dall’età anagrafica? Giovani e meno giovani, uomini e donne, dopo anni scoprirono o riscoprirono allora (“per dimostrare di essere vivi”, come si dice nel finale del film ‘Fragole e sangue’ incentrato sui moti di Berkeley) una rinata dimensione politica riaffacciandosi all’uscio della volontà di esserci, di tornare di nuovo sulla strada (“c’è solo la strada su cui puoi contare/la strada è l’unica salvezza/c’è solo il bisogno la voglia di uscire/di esporsi nella strada nella piazza/perché il giudizio universale non passa per le case/le case dove noi ci nascondiamo/bisogna ritornare nella strada/nella strada per conoscere chi siamo”, scriveva in quegli stessi anni un altro grandissimo come Giorgio Gaber).
Come è andata a finire in Francia nel ’68 e qui da noi sette anni fa ormai è storia, anche se c’è sempre –per fortuna- chi decide di ergersi a coscienza critica. Scriveva ancora De André in ‘Storia di un impiegato’: “Anche se avete chiuso/le vostre porte sul nostro muso/…lasciandoci in buonafede/massacrare sui marciapiedi/anche se ora ve ne fregate/voi quella notte voi c’eravate”. Sorprendente, vero? Così come lo è anche il grido disperato che chiude l’intero album, con il protagonista in carcere che scopre un nuovo modo di capire la vita e le cose: “di respirare la stessa aria/dei secondini non ci va/abbiam deciso di imprigionarli/durante l’ora di libertà/venite adesso alla prigione/ad ascoltare sulla porta/la nostra ultima canzone/che vi ripete un’altra volta/per quanto voi vi crediate assolti/siete per sempre coinvolti”.
Certo, soltanto l’illusione (o forse l’utopia) di un artista. Impossibile chiedere a chi era parte attiva in quelle notti un autocoinvolgimento morale. Ma ci potremmo accontentare magari soltanto di un po’ di vergogna, perché le cose che sono state fatte –a Bolzaneto come ad Albaro- sono cose di cui occorrerebbe davvero vergognarsi. Se solo certe persone, però, sapessero cosa sia, la vergogna.
IL COMMENTO
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