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di Stefano Rissetto

Ignoro chi vincerà le prossime elezioni, ma ad averle già perse - almeno moralmente - sono tutti quelli che per troppo tempo avevano detto e ripetuto quel che si è rivelato falso: ovvero che anticipare il voto sarebbe stata una catastrofe.

Invece non è successo niente: le Camere sono state sciolte in estate e perfino in tempo di guerra e a pandemia perdurante, periodo peggiore non si sarebbe potuto dare, eppure l’Italia è ancora tutta intera. E a dire il vero anche gli apocalittici se ne sono stati. Viene così il sospetto, più di un sospetto, che l’ecatombe venisse sventolata per scongiurare l’ipotesi che fosse un Parlamento rinnovato a votare nelle presidenziali dello scorso febbraio. E qui ci sono gli altri perdenti, anche se vincessero, del voto imminente: tutti quelli che avevano promosso la rielezione del presidente uscente, per non dividere ciò che Dio o il suo equivalente aveva unito. Mantenere integro l’asse istituzionale alla base del governo di unità nazionale, dissero fior di strateghi, era il solo modo per non far cadere il governo Draghi. Che invece è caduto lo stesso, quasi subito dopo la riconferma al Colle che nei fatti trasforma la presidenza in una via di mezzo tra un mandarinato e un’usucapione di partito. In particolare a destra è stato un vero affarone al contrario: appena quattro mesi ancora per l’ex banchiere a Palazzo Chigi, barattati con il quarto mandato presidenziale consecutivo targato Pd.

Ignoro chi vincerà le prossime elezioni, ripeto, anche perché è una partita che si gioca con una legge elettorale pessima, tutt’altro che congegnata in senso ipermaggioritario: approvata ai tempi in cui si temeva la marea populista gialla, è invece un diabolico congegno costruito perché nessuno vinca davvero, come è puntualmente avvenuto nella scorsa delirante legislatura, con tre maggioranze diverse di cui due opposte guidate dallo stesso personaggio e una forza, votata perché si era proposta come antisistema e refrattaria alle alleanze, finita a fare il perno del sistema e ad allearsi via via con quasi tutti.

Probabile quindi che ci si ritrovi in uno scenario di aspiranti “responsabili” a tassametro, di senatori eletti all’estero a fissare il prezzo, di spose che scappano col testimone o col celebrante a cerimonia conclusa, cose insomma già viste. Ennesima tappa del nostro viaggio al termine della democrazia.

Quel che non si era mai visto è l’invisibilità. Non è un paradosso: è la fotografia di una campagna elettorale mai così assente. Ma sono le elezioni stesse ad essersi rese quasi inavvertibili, per lo meno rispetto a quelle fasce ormai senescenti se non estinte che considerava il voto più un dovere che un diritto. Sarà un caso, ma l’astensionismo ha cominciato ad aumentare da quando la vecchia convocazione per posta è stata sostituita dalla tessera elettorale, trasformando la chiamata istituzionale alle urne in un gesto individuale volontario.

Al mio paese, vicino alla scuola dove ho fatto le elementari, corre un rettifilo di pannelli di lamiera per le affissioni: tutti vuoti, tranne un paio di manifesti di candidati di lungo corso. Non ci sono comizi di piazza, sostituiti da raduni ristretti spesso al chiuso, del tutto inutili per attirare perplessi o indecisi o contrari, risolti in riti di automotivazione in sostenitori già convinti. Rarissimi i santini e i poster, circola stancamente ancora qualche camion con i faccioni.

Quindi la partita elettorale, per forza di logica, si gioca nel campo immateriale non soltanto della televisione, ma anche e soprattutto dei mezzi di comunicazione della Rete tra cui spiccano le comunità internautiche. Una deriva che è diretta conseguenza dello scivolamento della politica stessa e della sua dialettica nella cornice astratta del chiacchiericcio elettronico. Forse era noioso e inconcludente il tempo delle “piattaforme” e delle “convergenze parallele” e degli “intellettuali della Magna Grecia”, ma questo presente in cui la politica è scandita da “tweet” e “post”, con la forma sistematicamente anteposta se non sostituita al contenuto, produce disincanto. Vanno così a votare davvero in pochi, se togliamo i candidati e quelli che dai candidati si aspettano qualcosa dopo l’eventuale elezione. Forse la politica sta sparendo anche perché i veri centri decisionali e di potere ormai ne sono lontani. La politica, in Italia come altrove secondo graduazioni alternate, è divenuta accessorio rispetto a strutture diverse: i famigerati “poteri forti”, che magari non esistono ma, a vedere quel che succede in politica da troppo tempo, anche inesistendo fanno di tutto per convincere la gente del contrario. Così il voto, piano piano trasformato da esercizio costituzionale di sovranità a parere consultivo non vincolante, diventa inutile. E le elezioni si fanno desolata liturgia in onore di un dio mai esistito.