Ho visto le uova di Pasqua al supermercato. Davvero. Non era il deragliamento emotivo per l’ennesima partita del tubo, tanto ormai va così da anni e dovrei essere aduso. Non era una fatamorgana, c’erano. Piccole ma le ho viste, certo non ancora esposte col trionfalismo tracotante dei dolci natalizi a ottobre, acquattate sì in una scaffalatura laterale, confuse nell’alluvione delle chiacchiere o bugie di Carnevale che dir si vogliano, a loro volta premature perché il martedì grasso - ho controllato - è il 21 febbraio quindi c’è tempo. Quelle uova sono l’avanguardia, eppure mancano ancora due mesi al 9 aprile, poi toccherà alle colombe, che fino a qualche anno fa erano in versione base, ora toccano tutti i tasti del pianoforte e non si fanno scappare sapori e aromi. E si proporranno imperiose, anche in un tempo in cui la colomba ha poca cittadinanza.
Intanto mi chiedo dove sia finita la moltitudine di dolci natalizi, assortiti in infinita varietà fino a far dimenticare la matrice originaria, snaturati dal legame con la ricorrenza e la tradizione fino a diventare una specie dolce della base per la pizza, sopra la quale ci si può mettere tutto. Delle uova, appunto, ho sempre sentito che a festa passata venissero rifuse e riutilizzate per le tavolette, forse era una diceria anch’essa, come fare però con i panettoni millegusto, ripieni di ogni farcia la più assurda? Passino le offerte dueperuno, ma non conosco gente che si disponga a pasteggiare ogni santo gjorno per settimane col pandoro preso a metà prezzo. Io a Natale ho avuto in dono due pandolci, uno alto e uno basso, per non lasciarli invecchiare li ho usati al mattino a fette per la colazione, ma ci ho messo più di un mese a farli fuori e dopo un po’ mi ero annoiato. Però sono della scuola di chi viene dalla fame, il cibo guai a buttarlo. E poi tutto sommato alla fine a Genova il pandolce si mangia tutto l’anno, ormai, e aggiungo meno male.
Ma soprattutto mi domando perché la grande distribuzione ci opprima con il tempo che passa, circostanza che purtroppo mi è nota anche per le insidie appunto dei negozi, la prima volta che mi chiesero la tessera del mercoledì era sei-sette anni fa ed ero altrettanto sciupato, ma ancora lontano dalla scadenza. Dovrebbero lasciarci il tempo di metabolizzare l’attesa degli eventi sul calendario, invece di incalzarci con gli anticipi. Altrimenti il senso dei mesi e delle stagioni si ottunde. Sarà che quando hai dieci anni un anno è un decimo della tua vita, mentre se ne hai cinquanta diventa un cinquantesimo. Però la velocità dei fogli del calendario dovrebbe essere la stessa. E invece ti scopri a interrogarti se i panforti che occhieggiano dagli scaffali siano le rimanenze del Natale precedente oppure le avvisaglie di quel che si prepara.
IL COMMENTO
Situazione drammatica, presidente Meloni serve incontro urgente
La Liguria vuole tornare a correre, al via i cento giorni di Bucci