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di Franco Bampi

Il termine Epifania viene dal greco antico epìphaneia che significa “manifestazione, rivelazione, apparizione”. Nella Chiesa cattolica e nella tradizione popolare indica la manifestazione della divinità di Gesù Cristo che si concretizza, più specificamente, con la venuta e l’adorazione dei tre Re Magi. Dalla parola Epifania seguono i termini Bifanìa e Pifanìa da cui ha origine la parola Befana, popolarmente usata per indicare la festa del 6 gennaio.

Nella lingua genovese, l’Epifania viene indicata con il termine Pasquêta, diminutivo di pasqua, nel suo significato di festa; quindi “piccola festa” alludendo alla prima festa dell’anno considerata minore rispetto alla Pasqua di Resurrezione o Pasqua Maggiore. Osservo che il termine Pasquêta si usa anche nel piemontese, nel lombardo, nel veneto, nell’emiliano e nel romagnolo. Purtroppo l’influenza del dilagante romanesco ha fatto sì che con il termine Pasquetta venga denotato il giorno sucessivo alla Pasqua, quello che in genovese si chiama o Lunedì de l’Àngiou, che corrisponde all’italiano Lunedì dell’Angelo. Ma ricordiamoci che in genovese Pasquêta va usato esclusivamente per denotare il giorno dell’Epifania. Qualunque purista del genovese vi riprenderà se lo usate per il giorno dopo la Pasqua!

La tradizione vuole che la Befana, personificata in una vecchia bruttissima ma generosa, scenda per la cappa del camino e lasci nelle calze (scelte ben capienti) doni e dolciumi ai bambini buoni, mentre ai cattivi patate e pezzi di carbone – che spesso, però, era il graditissimo carbone dolce. A questo proposito mi è caro citare la Befana di Cantonê: ai vigili urbani, che dirigevano il traffico su apposite pedane, le persone lasciavano regali di riconoscenza. Infatti, la figura del vigile urbano è sempre stata quella di una persona vicina e sensibile alle problematiche della gente. Poi il traffico caotico e, dico io, l’eccesso di multe per divieto di sosta hanno fatto cessare questa cordiale tradizione.

Altre usanze che si facevano il giorno dell’Epifania ce le racconta Nicolò Bacigalupo nel suo libretto del 1903: Inni Civili – costumanse zeneixi ne-e grandi solenitæ da Gexa. Per prima cosa ricorda che, incuranti del freddo, i genovesi visitavano i presepi di San Barnaba, d’Oregina e della Madonnetta, oppure passeggiavano in via Nuovissima (via Cairoli), in via Roma e nelle Strade Nuove. Curioso quello che dice del cibo. Per questo ricordo il proverbio Epifàgna gianca lazagna, dove l’accento sulla i di Epifania retrocede per esigenze di rima. Lasagne, dunque, che i raffinati chiamano mandilli de sæa, perché erano fatte in croste sotiliscime, come precisa il Bacigalupo. Ma con che cosa erano condite? Con il pesto, diremmo in coro tutti noi. Ma Bacigalupo smentisce quest’usanza e afferma che il condimento era un buon sugo tratto da una lonza di vitello. Come cambiano i costumi! Oggi giudichiamo il pesto come un capolavoro della cucina ligure, ma a fine Ottocento era un “mangiâ òrdenaio” da non consumarsi nelle feste in cui era un ricco sugo di carne a farla da padrone.

Il 6 gennaio del 1871 nasceva a Genova il poeta Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, che ci lascerà nel 1919. Il suo cognome era Roccatagliata cui decise di aggiungere il cognome della madre, Ceccardi, per rispetto verso la genitrice. Ironia della sorte, la via a lui intitolata è universalmente nota come via Ceccardi, cioè tramite il cognome della madre e non il suo.

Mi piace concludere con le ultime tre quartine di Bacigalupo:

O Zenéize ch’o santìfica
E o l’òsèrva con rispètto,
Per antîga consoetùdine
Quésta fèsta de precètto,

O se sénte sénsa scrùpolo
E o l’à a fèrma convinçión,
D’avéi fæto ògni sò débito,
De rinpètto a-a Religión,

E o va ’n létto, mogognàndose:
Òggi (sic!) a fèsta l’ò òservâ,
E lazàgne êan gustozìscime,
Me n’ò fæto ’na pansâ!