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La lezione va imparata subito per evitare che certe cose succedano anche qui
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di Matteo Cantile

Dovremmo guardare con attenzione a quello che sta succedendo in Francia: non sempre l'attualità assume i contorni di una sfera di cristallo che consente a un popolo di prevedere il proprio futuro. I disordini d'oltralpe, invece, lo sono e vanno analizzati con cura.

I pesanti scontri che nelle principali città francesi sono usciti dalle banlieue e hanno invaso i centri cittadini sono la conseguenza di un malessere profondo che coinvolge una parte specifica della popolazione, quella straniera e più povera. Non è la prima volta che in Francia accadono simili disordini che in passato hanno coinvolto anche le periferie di Londra, in particolare l'area di Tottenham.

Quello che sta succedendo, e che è già successo, non è troppo difficile da interpretare: la Francia, come la Gran Bretagna, ha una radicata storia di immigrazione dai Paesi africani e asiatici; le conquiste coloniali, l'imposizione della lingua, del sistema scolastico e della cultura francese, hanno generato un rapporto stretto tra Parigi e le sue colonie che si è trasformato poi in un inevitabile e costante flusso migratorio. Le prime generazioni, e spesso anche le seconde, hanno mantenuti solidi contatti culturali con i propri Paesi d'origine che si sono via via perduti nelle generazioni successive.

Ne è nata una koinè alternativa, che non è del tutto francese e nemmeno arabo-africana: è simile a quello che è successo da noi tra gli emigrati del meridione saliti al nord per lavorare, ma con una significativa differenza, una distorta concezione teologica che sfrutta la religione come simbolo identitario. Gli abitanti delle periferie sono o si sentono poveri ed emarginati, una condizione che ritengono collegata alle loro origini straniere e alla loro differente religiosità. Rispetto a ciò che accade negli Stati Uniti, dove la questione non è religiosa ma meramente collegata al colore della pelle, in Francia e Gran Bretagna si è sviluppata una contrapposizione che è culturale nel senso più profondo del temine.

È una condizione che noi oggi conosciamo poco perché la nostra migrazione è decisamente più recente: chi parte dal centro dell'Africa a piedi e rischia la vita per mesi fino a quando un incerto barcone lo conduce sulle nostre coste è un individuo molto motivato, con un piano di vita preciso, sulle spalle porta uno zainetto povero di oggetti ma ricchissimo di sogni. I loro figli e i loro nipoti vedono le cose in modo decisamente meno netto: in Italia non siamo ancora arrivati a quel punto nell'evoluzione del fenomeno ma ci arriveremo prima di quanto si possa immaginare.

Tempo fa ho partecipato a un evento con alcune scuole elementari genovesi e sono rimasto colpito dal tasso di bambini di origine straniera in quelle giovani classi: è stato un bellissimo effetto perché i ragazzini parlavano tutti la stessa lingua, avevano lo stesso accento, giocavano e si divertivano allo stesso modo. Erano certamente tutti uguali, rappresentavano l'integrazione dispiegata su un palco.

È quello che succederà dopo che dovrà essere gestito con intelligenza, mostrando di avere appresa la lezione francese. Come si fa ad evitare che questi bimbi, quando saranno adolescenti e poi uomini, sviluppino un odio nei confronti del Paese che li ospita?

Il primo “no assoluto” è la costruzione di periferie giganti e degradate: a Genova si sta già seguendo questa strada, l'abbattimento della diga di Begato è un fatto positivo che va in questa direzione. I cittadini si devono mescolare per quanto possibile: la divisione della città in quartieri costosi e meno costosi è una inevitabile legge del mercato ma l'edilizia popolare deve essere capace di spargere la propria offerta a macchia di leopardo. Ciò consentirà ai bambini di origine straniera di crescere in un ambiente realmente cosmopolita, al contrario di quanto avverrebbe in una scuola con pochissimi bimbi italiani.

Vi è poi un secondo aspetto, più culturale e in un certo senso filosofico: gli italiani devono saper gestire l'integrazione senza dimenticare il proprio percorso. Non è possibile integrare uno straniero senza essere consci di quello che siamo e del perché siamo diventati così. Quando nel 2019 l'allora presidente iraniano Rohani visitò Roma fu deciso di coprire le nudità delle statue sul Campidoglio: un'ingenuità ridicola che fu stigmatizzata dallo stesso presidente in visita che disse di non avere mai chiesto nulla del genere. Non si può commettere lo stesso errore con i crocifissi, i presepi o gli alberi di Natale: ogni Paese ha le proprie tradizioni che affondano le loro radici in una storia millenaria. E' l'incontro tra queste storie che crea il sincretismo religioso e il sinecismo dei popoli, non la negazione di quello che le persone sentono di essere.

L'immigrazione è un fenomeno connaturato all'esistenza umana: i popoli migrano per necessità, per mutate condizioni o anche solo per il gusto della scoperta. Le società che ne derivano sono sempre più ricche e attrezzate di quanto non fossero prima di mescolarsi ma il processo non va lasciato al caso.

Non bisogna costruire una generazione che pensa che la polizia gli spari addosso perché neri o musulmani: Nahel, ammazzato a Nanterre, forse l'ha pensato. Di sicuro lo hanno pensato i suoi amici. In Italia non deve mai pensarlo nessuno e su questo dobbiamo lavorare ora.