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Perché Genova? Perché ancora qua in mezzo alla nostra città, dentro a quel quartiere tenuto in ostaggio per ore, in quelle strade, in quelle piazze, lungo quel fiume, che ogni tanto anche lui si scatena con l’acqua delle alluvioni? Perché di nuove quelle scene che tornano dal G8 di 23 anni fa?

Non è stata sopportabile la giornata del derby, dai primi scontri intorno allo stadio fino alla notte fonda, quando la polizia chiudeva le grandi strade di scorrimento della città, corso Torino, Corso Buenos Aires, per isolare i violenti. Non è sopportabile subire la condanna della chiusura dello stadio per le prossime partite e il divieto delle trasferte per qualche decina di migliaia di tifosi genoani e sampdoriani estranei e danneggiati.

Non è possibile scoprire che ci sono state decine di feriti e la maggior parte tra le forze dell’ordine, perché si giocava il derby tra Genoa e Sampdoria, che vuol dire festa, tifo, passione anche gioia, gioco del calcio, tradizioni passate da generazioni a generazioni.

Non è possibile trasformare lo spettacolo del calcio, quello più appassionante perché schiera il Genoa e la Sampdoria, le squadre, divise da una rivalità cittadina, che è anche il sale di quella passione, il gusto della sfida calcistica più attesa in un assedio. Assedio della città, assedio della stadio, diventato un fortino da assaltare o da cui uscire di corsa per andare ad attaccare “gli altri”, assedio che diventa l’evento sotto il quale si schiaccia tutto, la partita, il tifo, il calcio, anche i suoi estremismi economici, tecnici, umani, di rappresentazione onnivora di partite, protagonismi, successi, vittorie, sconfitte, delusioni, esaltazioni.

No, qui sbuca solo la violenza programmata, organizzata, di importazione perfino straniera, i marsigliesi, fermati e arrestati venuti qui solo per fare male e neppure vederlo lo stadio. Il clan dei marsigliesi e non quelli dei film di Alain Delon, Jean Gabin, ma uomini mascherati con bastoni e catene di ferro e coltelli serramanico, venuti a cercare il sangue degli odiati “nemici”. E gli altri ultras, calamitati da altre frange estreme di tifo professionalmente “sporco”, cattivo, al grido: “Andate a Genova che c’è da picchiare, da fare casino!” Da Marsiglia, da Verona, da Ascoli Piceno, da Milano, da Torino, da ogni altrove della violenza da masticare. Anche a sedici, diciassette, diciotto anni, l’età di numerosi coinvolti nei disordini.
Si possono ora tirare tutti i bilanci tragici e calcolare le misure da assumere per impedire che i fatti si ripetano in una spirale negativa, che a Genova non si era mai vista. Fino a prevedere le misure più drastiche e che colpiranno duramente la stragrande maggioranza dei tifosi (i più numerosi in Italia rispetto alla popolazione, sia per una squadra che per l’altra), quando si gioca a Marassi e anche quando si gioca in trasferta.

Il “perché” può ricevere tante risposte, di governo dell’ordine pubblico, di organizzazione urbanistica, di sociologia, perfino di psicologia e di studio del governo delle masse. Sono state date, queste risposte, nei giorni scorsi, dai tanti che sui giornali e sulle televisioni, in particolare sulla nostra di Primocanale, hanno fornito spiegazioni, interpretazioni e anche suggerimenti, ma restano due grandi questioni.

Una specifica e una più generale.


Quella specifica riguarda il “Luigi Ferraris”, la sua collocazione, il suo stato di manutenzione e di servizi, le sempre fumose prospettive di restyling e sopratutto il suo condizionamento in quel quartiere, oggi che le partite non sono più tutte domenica alle ore 14,30, ma praticamente sempre. In quel quartiere, schiacciato tra le due alture e con il fiume in mezzo, subordinato anche allo stadio nel bene, ma sopratutto nel male, in quella Valbisagno “bassa”, che è oggetto di progetti mai eseguiti, sempre discussi a partire dallo skymetro e dalle colossali ristrutturazioni in corso, le officine e posteggi Amt, gli ampliamenti della grande distribuzione, la ex Volpara in espansione, perfino il forno crematorio di Staglieno. Tutti servizi che implicano maggiore affluenza di pubblico.

E’ una discussione infinita quella dello stadio di Marassi, che assomiglia alla “Storia Infinita”, quel film per bambini (e non solo) che finiva con il “Regno del Nulla” che minacciava di inghiottire tutto.
E’ quello che sta succedendo allo stadio già ricostruito nel 1990, ai suoi progetti, agli infiniti ( anche questi) studi, mentre la struttura resta “un cesso”, come scrivo da decenni su tutti i giornali che mi ospitano. Quasi inaccessibile, con tornelli insufficienti, indecente nei servizi igienici e in quelli di ristorazione, ridondante nello spazio ai mezzi di comunicazione, con i servizi di trasporto pubblico per arrivarci spesso ridicoli. L’ascensore pubblico, che dal retro di via Canevari trasporta sotto piazza Manin, nelle partite notturne è rigorosamente chiuso. Tanto per fare un piccolo esempio.
Non c’è barba di amministrazione di sinistra, di destra, rossa, verde , blu e color arlecchino, capace di affrontare il tema del trasferimento, complicato in una città dagli spazi stretti, ma non impossibile.

Fanno tutti finta, eppure le idee ci sono state e qualche imprenditore, come Riccardo Garrone, le coltivava e le avrebbe anche finanziate. E qualche banchiere, come lo sciagurato Giovanni Alberto Berneschi, dalla fine così rovinosa, nei suoi tempi d’oro lo avrebbe anche sostenuto e non solo con la sua Carige.
E ora c’ è pure il progetto di restauro di Herbert Penaranda, architetto di grido, che sta invecchiando già. Inutile illudersi.
L’altro “perche’ ’’ riguarda Genova, questa città nella quale il seme della violenza, che esiste ovunque, scatena improvvise fiammate che poi spesso hanno gli stessi connotati, anche se le origini sono così diverse.

Dal G8 del 2001 contro la globalizzazione dei potenti del mondo, alle vendette delle frange più violente del tifo oggi e, prima ancora, le grandi battaglie urbane del 1960 contro il progetto di un governo nazionale di destra di Tambroni, poi gli sterminati anni di piombo, con tante strade insanguinate, tanti agguati del terrorismo delle Br, tanti morti e tanti sequestrati. E i terroristi di destra che preparavano ordigni sui treni in passaggio in Liguria, come quel Nico Azzi di “Ordine nuovo” che si fece esplodere la miccia mentre il convoglio era fermo alla stazione Brignole. La bomba avrebbe dovuto esplodere tra Riva Trigoso e Moneglia, provocando una strage di quelle firmate dai “neri” in quel tempo terribile che abbiamo rimosso.
Come in altre città, ovviamente, ma qui, con una disseminazione più estesa, dalla Spianata Castello, il Paradiso di Caproni, dove rapirono Piero Costa e spararono alle gambe di tanti democristiani, incendiando tre volte l’ auto di Angelo Sibilla, il segretario regionale scudocrociato, all’Università di via Balbi, dove gambizzarono Fausto Cuocolo, il democristiano professore di Diritto Pubblico e testa fina della Dc, fino a via Pisa, nella elitaria Albaro, dove su un bus trucidarono il superpoliziotto Antonio Esposito, al bar di Sampierdarena, dove mitragliarono i due carabinieri che prendevano il caffè, a salita santa Brigida dove tesero, sempre dietro via Balbi, l’agguato a Francesco Coco e ai suoi agenti di scorta. E potremmo continuare fino a quella collina di via Fracchia, segnata per sempre dalla morte di Guido Rossa operaio coraggioso e poi a pochi metri di distanza all’annientamento della colonna delle Br, il grande tragico finale della lunga storia degli anni di piombo a Genova.

Perchè sempre Genova a strappi, in sequenze lontane e imparagonabili per le matrici? Perché così spesso su questo scenario che l’altra notte si è ripetuto con tanti feriti che mai si erano visti nelle forze dell’ordine prima, dopo e durante una partita di calcio?
Uno dei grandi della politica genovese e italiana, Paolo Emilio Taviani, fondatore della Dc, per lunghissimo tempo ministro dell’Interno, a questa domanda rispose una volta, quando il timore di guerriglia minacciava ancora la sua città negli anni Settanta, mobilitando il più grande esperto di ordine pubblico di allora, il questore Emilio Santillo, colui che aveva domato nel 1970 la rivolta durissima di Reggio Calabria, quella del “boia chi molla”, dove erano insorti i postfascisti contro lo Stato, morti, feriti, l’esercito in campo con 5000 uomini, incendiando tutta la città probabilmente nel moto più violento in Italia dopo la guerra.

E Santillo spiegò che Genova si prestava alla rivolta, alla guerriglia urbana per la sua conformazione geografica, la facilità di accesso attraverso tante strade secondarie, la grande piazza De Ferrari delle adunate, con la via di fuga dei “caruggi” sottostanti, le alture, le crueze segrete, le scalinate, come la storica “Scalinata Montaldo”, che i black blok del G8 percorsero, dopo avere tentato di assaltare la redazione del “Corriere Mercantile” e poi incendiare le carceri, limitrofe allo stadio, per fare la loro scorribanda in Circonvallazione a monte, incendiando un centinaio di auto in sosta…

Quante volte è stata infranta da questa violenza l’immagine di Genova? Oggi fa ancora più male perché quegli scontri intorno allo stadio, quelle ambulanze negli ospedali cariche di feriti, quella città sotto scacco fino alle 3 di notte, quel numero di poliziotti e carabinieri feriti, quei tifosi in ostaggio per ore, prigionieri del “loro” stadio, nelle “loro” strade, quella partita della passione e della festa sovrastata dalla violenza, feriscono una visibilità che Genova stava recuperando con grande fatica nella sua complessa trasformazione. Ancora una volta.
E lo stadio vuoto di domenica nella superpartita del Genoa con la Juventus e poi nella successiva della Samp contro la Juve Stabia e le trasferte vietate saranno una eco inevitabile di quella violenza che Genova ha subito.