GENOVA -La lucida e dettagliata ricostruzione del maresciallo della guardia di finanza Stefano Ficini nell'ultima udienza sulla tragedia di Ponte Morandi costata la vita a 43 innocenti ha confermato che nessuno ha provato a disinnescare la bomba a orologeria che lo stesso ingegner Morandi aveva detto che sarebbe esplosa senza i necessari interventi sulla sua opera, così innovativa ma così fragile da quando si era scoperto, già pochi anni dopo il battesimo del viadotto Polcevera, nel 1967, che quel calcestruzzo pressurizzato non era inattaccabile dagli agenti esterni come lui pensava.
La corrosione infatti lo aveva attaccato quasi subito: come dimostrano i pur pochi controlli svolti. Il maresciallo dei finanzieri oggi risponderà alle domande degli avvocati nel contro esame: ed è facile immaginare che i difensori dei vertici di Autostrade per l'Italia e di Spea (la società di ingegneria che avrebbe dovuto controllare le strutture per conto di Aspi) e dello stesso Ministero delle Infrastrutture cercheranno di dimostrare che il ponte è crollato perché era stato costruito male tanto che nessuno poteva immaginare che fosse così malato.
Ficini però nella sua esposizione ha puntato il dito sull'inosservanza delle circolari che imponevano verifiche annuali e trimestrali mai svolte, la prova anche nelle fatture inesistenti delle gru della ditta Vernazza, l'impresa a cui Autostrade per l'Italia si affidava con affitti mirati per raggiungere la sommità a 70 metri da terra degli stralli delle pile: l'unico modo per effettuare gli scassi, ossia i carotaggi nel cemento per accertarne lo stato di salute, altro che prove riflettometriche, verifiche con impulsi elettrici, dagli esperti di tutto il mondo definite poco affidabili, e a cui invece Aspi, pur in numero comunque non sufficiente, aveva affidato la verifica del "ponte di Brooklyn" sul Polcevera.
Dopo Ficini oggi parleranno altri investigatori della finanza: all'oggetto le intercettazioni telefoniche e ambientali svolte dopo il crollo, ma anche prima, visto che un imputato non fidandosi dei colleghi registrava le riunioni già prima del 14 agosto del 2018, la data della tragedia.
Oltre ai finanzieri davanti ai giudici Lepri, Baldini e Polidori e ai pm Terrile, Cotugno e Airoldi in questi tre giorni di udienze parleranno anche i primi vigili del fuoco intervenuti dopo la tragedia e a cui è toccato soccorrere i pochi sopravvissuti sfidando la morte operando sopra e sotto i resti del Morandi, che in linea teorica sarebbero potuti crollare subito dopo la parte collassata, schiantata dalla corrosione degli stralli della pila nove che nessuno ha voluto mettere in sicurezza nonostante a metà degli anni '90 fossero state sistemate le altre due pile, la 11 e la 10.
L'unico che in quegli anni aveva provato a sollecitare la ristrutturazione di quella pila, un giovane ingegnere allievo del Morandi, era stato quasi irriso da due degli imputati eccellenti di Autostrade per l'Italia, "la pila 9 non è a rischio" avevano garantito i baroni di Aspi, "lo dicono le prove riflettometriche". Già, le prove che per tutti erano inaffidabili, quel giovane ingegnere che aveva previsto una delle più grandi tragedie moderne d'Italia, confermerà con uno scambio di mail tutto a un altro ingegnere, Paolo Rugarli (foto in alto), un primo della classe molto meticoloso che ama raccontare la sua materia in modo semplice, per farla capire a tutti. Un dono di pochi in tutte le professioni.
Rugarli è stato ascoltato nelle scorse udienze come teste delle famiglie Bellasio e delle sorelle Possetti, parti civili, i veri danneggiati della tragedia perché non hanno perso una casa o un lavoro, ma i familiari. Quando ha raccontato questa storia in aula ha fatto drizzare le antenne a tutti, pure ai giudici, che poi hanno accolto la richiesta di portare quel giovane ingegnere che aveva osato sfidare i baroni, e che ora, a quasi trent'anni di distanza dovrà raccontare di quella profezia. Quell'ingegnere, ormai non più giovane, Emanuele Codacci Pisanelli (foto in basso), romano, che nel frattempo ha costruito ponti sul Nilo, in Congo, in Niger e sullo Zambesi, e ha lavorato in Asia e America Latina, sarà al processo lunedì 27 febbraio, fra due settimane: e molti scommettono che quel giorno l'aula ricavata nella tensostruttura del tribunale sarà più piena che mai.
IL COMMENTO
Situazione drammatica, presidente Meloni serve incontro urgente
La Liguria vuole tornare a correre, al via i cento giorni di Bucci