Cultura e spettacolo

Il sequel di Tim Burton ha inaugurato fuori concorso la Mostra di Venezia
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di Dario Vassallo

Il sequel a Hollywood è diventato un bene prezioso e ogni studio cinematografico scava nelle profondità del proprio archivio alla ricerca di progetti pronti per essere resuscitati. ‘Beetlejuice Beetlejuice’, che ha inaugurato fuori concorso la Mostra di Venezia, rientra in questa categoria dal momento che l’originale fu il film che fece conoscere la mente stravagante e misteriosa di Tim Burton che allora gettò le basi per quello che sarebbe diventato un personalissimo stile distintivo che lo inserì di diritto nella mappa dei registi visionari: sensibilità macabre e gotiche, personaggi eccentrici e spesso incompresi e una naturale inclinazione per tecniche ormai vecchia scuola ma allora rivoluzionarie come l'animazione stop-motion e gli effetti speciali. 

Trentasei anni dopo e diversi tentativi falliti in questo arco di tempo ecco Burton riassemblare la squadra originale più o meno al completo aggiungendo al mix un pugno di nuovi nomi come l’attuale compagna Monica Belluci, Jenna Ortega, star della serie tv ‘Mercoledì’ da lui stesso ideata, e Willem Dafoe. Si parte con la giovane eroina di ‘Beetlejuice’, Lydia Deetz (ovvero Winona Ryder) che ora è una madre vedova famosa per condurre un reality show chiamato Ghost House dove convince gli ospiti a condividere esperienze agghiaccianti di fenomeni inspiegabili che accadono nelle loro case. Ma una visione scatenante del malizioso Beetlejuice di Michael Keaton seduto tra il pubblico le rivela che non si è affatto lasciata alle spalle il suo passato tormentato. Ha un rapporto teso con la figlia adolescente, Astrid, che non sopporta che la madre passi più tempo con i morti che con lei, irritata anche dalla sua riluttanza a parlare del padre scomparso in un incidente in Amazzonia. Completano il quadro il sordido fidanzato/manager di Lydia che la vuole sposare la notte di Halloween, la madre egocentrica artista d’avanguardia, e l’ex-moglie vendicativa di Beetlejuice, Dolores, che terrorizza gli inferi reclamando l'anima del marito. Secoli fa, la loro sfortunata relazione l'aveva ridotta letteralmente a pezzi, finiti nel magazzino degli oggetti smarriti dell’aldilà che ha recuperato procedendo poi a ricucirsi con una pistola spara graffette.

Non è che la storia sia chiarissima ma la meccanica della trama non ha molta importanza dal momento che il ritmo serrato e l'energia esuberante lasciano intuire l’allegria che Burton sembra aver trovato nel rivisitare questo mondo, contagiosa per chiunque abbia amato l’originale. Le vertiginose emozioni di guardare attori catapultati da una spettrale casa di famiglia in un purgatorio fortemente burocratizzato attraverso un portale che mette in comunicazione l’aldilà con l’aldiquà creano un melange tra ‘Alice nel paese delle meraviglie’ e ‘La famiglia Addams’ costellato di richiami all'originale e divertiti riferimenti alla cultura pop, da Carrie di Brian De Palma a Mario Bava fino a Donna Summer. E’ un sequel che non aspira alla grandezza ma dove Burton sembra semplicemente essersi concesso il lusso di divertirsi: un tappeto magico di caos che si contorce su se stesso ma non privo qua e là di un’inquietante ed elegante poesia.

Non è che manchi di idee, anzi ne ha fin troppe: a volte confuso e sovraccaricato ci fa girare la testa ad una velocità vertiginosa saltando in modo irregolare tra linee narrative che non convergono mai veramente ma dal momento che negli ultimi tempi Burton sembrava aver perso il suo fascino srotolando spin-off tiepidi e remake live-action di livello tutt’altro che eccelso (vedi ‘Dark Shadows’ o ‘Dumbo’), ‘Beetljuice Beetlejuice’ riporta in vita un regista che ha spesso ceduto alla tentazione autoriale di diventare il miglior imitatore di se stesso.

Ha sempre avuto una dualità nel lavoro, insider cresciuto nelle sacre stanze dell'animazione Disney, ma anche outsider le cui inclinazioni barocche non si sono mai mescolate in modo ordinato. Qui fonde entrambe le identità impegnandosi in questa visione stravagante e distorta del mondo che gli è più congeniale mescolando il meraviglioso con il macabro. E la cosa migliore di tutte è la Dolores di Monica Bellucci, nonostante la sua presenza intermittente. Quando però spunta sullo schermo in una fantasticheria gotico-horror, il volto graffiato a zig-zag è un omaggio non solo al Frankenstein originale di Boris Karloff, ma anche alle grandi creazioni di Burton da lui ispirate, come Frankenweenie o la protagonista de La sposa cadavere: è il volto dell'amour fou, imperfettamente perfetto, il sogno-incubo da cui sai di dover scappare cosciente nello stesso tempo che non riuscirai mai a farlo.