Arnaud Desplechin in Francia è un regista di culto, tanto che è la settima volta che troviamo un suo film in concorso al Festival di Cannes. La prima fu nel 1992 con il suo esordio cinematografico, ‘La sentinelle’, mentre nel 2017 ebbe anche l’onore – con ‘Il fantasma di Ismael’ – di inaugurare la manifestazione. Quest’anno è tornato con ‘Frere et soeur’, una nuova variazione sul tema dei rapporti familiari.
In genere nei film di Desplechin ci si ama e ci si odia. Ma quando ci si odia non si fa finta e Alice (Marion Cotillard) - di professione attrice, peraltro di grande successo – da oltre vent’anni odia profondamente suo fratello Louis (Melvil Poupaud), scrittore e poeta. Per ragioni misteriose e complicate, di cui peraltro non verremo mai a conoscenza nonostante molteplici frammenti ritornino al passato di questa storia familiare, non si parlano. Sì, è vero, Alice si è risentita quando la fama di Louis ha superato per un certo periodo di tempo la sua, ma c'è dell'altro nella loro reciproca avversione.
Tutto questo ci è chiaro fin dall’inizio, in una veglia funebre: quella del figlio di Louis morto a sette anni, quando si presentano anche il cognato e la sorella e lei non viene neppure fatta entrare, colpevole di non aver mai conosciuto il nipote defunto. Sarà un incidente stradale nel quale vengono coinvolti i loro genitori a mettere di nuovo i due inevitabilmente uno di fronte all’altro.
Quello che Despleschin racconta in ‘Fratello e sorella’ è sostanzialmente una guerra. Incredibilmente violenta. Senza percosse, senza scontri a fuoco, senza sangue ma combattuta a parole, a sguardi, a gesti. Con tutto quello che ne consegue: pulsioni represse, paure nascoste, sofferenze dissimulate, i mille percorsi per comprendere ciò che allontana e che, forse, un giorno schiaccia, un giorno avvicina. Perché le tragedie hanno la drammatica tendenza ad aggiungersi ad altre tragedie, qui ciò che accade ai genitori dei due protagonisti.
Tutto questo viene però stemperato e diluito da una narrazione che prende troppe derive secondarie che poco o nulla hanno a che vedere con il nocciolo della situazione. Louis, per esempio, ci viene mostrato anche dipendente dall’oppio e impegnato nella ristrutturazione di un cottage in montagna con la moglie Faunia, una curatrice di libri su pitture rupestri mentre Alice, nel frattempo, non ha solo un marito e un figlio, ma anche uno strano rapporto, abbastanza incomprensibile, con una ragazza rumena senza fissa dimora che l’aspetta ogni sera fuori dal teatro in cui recita alla fine di ogni rappresentazione. Oltre ad un debole per gli antidepressivi. Aggiungiamo anche un suo viaggio arbitrario in Africa, un volo in stile realismo-magico di Louis sopra la città, tutta una serie di flashback, voci fuori campo e riflessioni esternate davanti alla macchina da presa e il quadro è completo.
Forse, dal momento che alla fine – attraverso gli echi dell’infanzia - si intravede una sia pur dolorosa riappacificazione e una nuova prospettiva per il futuro, Despleschin avrebbe dovuto semplicemente concentrarsi sul rapporto tra un fratello e una sorella, tenendo ben presente che non è un legame di parentela ciò che può unire a vita una persona ad un’altra. Sarebbe stato più che sufficiente.
IL COMMENTO
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